Fare la rivoluzione e diventare classici è un’impresa, soprattutto se tutto accade a Rivoli, provincia di Torino. Davide Scabin lì è nato, e lì è rimasto. Non ha avuto grandi maestri, non ha risciacquato casacche nella Senna come i suoi più illustri colleghi e predecessori, non si è concesso anni sabbatici a contatto con popolazioni di nativi per ritrovare se stesso, come sembra imporre l’ultima frontiera dell’alta cucina, metafisica sino a rasentare il parossismo.
Scabin non ne ha mai sentito la necessità, perché la sua essenza risiede nell’ostinato solipsismo, in un’ispirazione ossessiva che percorre i sentieri del vizio per diventare arte. Incosciente come tutti i coraggiosi, intravvede la propria unicità nell’ormai lontano 1990, quando mette in carta al Bontan di San Mauro Torinese orecchiette alle cime di rapa con foie gras, incontro tra proletariato emigrante e nobiltà transalpina. Dopo qualche giorno, l’entusiasmo del proprietario del ristorante sfuma in autentica furia. L’autorevolissima rivista “Grand Gourmet” reca una ricetta del Divin Gualtiero, tragicamente identica a quella del giovane talento di Rivoli: orecchiette alle cime di rapa con fegato grasso. Arriva una solenne lavata di capo ma anche una presa di coscienza definitiva: “se il caso ha voluto che abbia pensato all’unisono con il Maestro posso, anzi, devo essere io il mio classico”. Fedele solo a se stesso e determinato nella sua prospettiva self-centered, Scabin inizia a scrivere la propria autobiografia senza modelli di riferimento. Il principio della rivoluzione è al Combal di Almese (il primo ristorante da patron), dove propone un menu classicamente piemontese per tutti e uno sfacciatamente creativo per le confraternite carbonare che lo richiedono in gran segreto. Le voci corrono, si mormora insistentemente che in quel di Almese vi sia un fuoriclasse dal paso doble tale da cambiare le partite, e in un attimo Scabin diventa oggetto di culto. Riparte dal Combal.Zero, sontuosamente incastonato nel Museo di Arte Contemporanea di Rivoli, Itaca e futuro. Qui riscrive molte regole della cucina italiana, sempre senza maestri, sempre come stella polare di se stesso, riuscendo in un’impresa riservata a pochi: essere avanguardia e al tempo stesso diventare un classico.
VENT’ANNI DI CYBER-EGGS
La rivoluzione scabiniana inizia simbolicamente vent’anni fa con il concepimento del Cyber-Eggs. È il novembre del 1997 e lo chef si trova nel reparto pasticceria del Combal di Almese, impegnato in attività di routine. Con le mani manipola svogliatamente della farina, ma il suo pensiero è sempre rivolto a un imprecisato “altrove”. Casualmente il suo sguardo incrocia un uovo. È colpo di fulmine: la Natura ha saputo creare un elemento perfetto nella sua lineare essenzialità, nel packaging e nel contenuto. Un elemento cui apparentemente non si può aggiungere né togliere nulla. E’ davvero così? Il giovane Davide sente il richiamo della sfida e pensa a un nuovo modo di concepire l’uovo, rivoluzionandone innanzitutto l’aspetto esteriore. Dopo innumerevoli tentativi a vuoto, la chiave di volta. Un rotolo di domopak trasparente, una doppia camera d’aria. Espone in vetrina il tuorlo nobilitato da caviale, scalogno, vodka, come fosse un oggetto-merce, da guardare ma non toccare. È quella pellicola a renderlo una piccola opera d’arte. Scabin fa come il pittore Alberto Burri, trasfigura l’”oggetto-scarto” all’interno di una poetica della forma e dello spazio. È davvero una nuova rivoluzione: se Marchesi apre il raviolo, Scabin lo sigilla. La gestualità è totalmente innovativa, l’instant-bite è filtrato dalla ferinità del bisturi, che apre la via all’esplosione di piacere che è l’essenza del nucleo. Oggi il Cyber-Eggs è feticcio, piacere istantaneo, lusso sfacciato per pochi (questo “scherzo” costa 55 Euro), opera d’arte, oggetto da riprodurre serialmente come una stampa di Andy Warhol. In poche parole, “un classico”.
DAL SOGGETTIVO ALL’OGGETTIVO: LA MADELINE DI PROUST
Innovatore feroce e iconoclasta, Davide Scabin è stato il massimo esponente mondiale del food-design. Packaging arditi e contenuti rispettosi della tradizione alternati a sperimentazioni spiazzanti: un mix vincente, a suo modo “pop” molto prima di Davide Oldani, con un culto della personalità da icona degli anni Novanta.
“Ravioli shake”, “Piola Kit”, “Ham-book” sono solo alcuni esempi di piatti ortodossi contenuti in involucri da museo d’arte contemporanea. Shaker, vasetti con dotazione di carte da gioco da circolo bocciofilo, libri e cornici sono accessori bizzarri e attraenti, che contengono piccoli capolavori di cucina borghese impreziositi da una tecnica fuori dal comune. Ravioli con tre diverse tipologie di burro, bagna cauda, tomino al verde, agnolotti in brodo, lingua brasata, panna cotta e Barbera D’Asti, prosciutto e gelatina di melone. Con il cruento “Charlie (Omaggio a Zio Sam)” Scabin ha giocato a fare il Jeff Koons dei fornelli, con lattine di coca cola tagliate a metà a simulare bare riempite di hamburger, cosce di quaglia e patatine. L’irrisione dell’American Dream servita su un piatto d’argento.
Poichè gli ingegni vivaci non si bagnano mai due volte nello stesso fiume, a un certo punto, però, sopraggiunge la necessità di cambiare registro, e quel bisturi che serviva a incidere il Cyber-Eggs diventa la lama che indaga nelle profondità del gusto. Molti piatti diventano apparentemente essenziali, le stoviglie uniformi. Alcune invenzioni non vengono comprese subito: la “Check Salad” del 2007 sembra una sequenza nuda e cruda di ortaggi da bagnare con una soluzione salina, nient’altro. Soltanto tre anni più tardi viene accolta con un’ovazione a un congresso, ed è un trionfo. Molti ricordano quella conferenza. Lo chef piemontese sale sul palco con un sifone in mano ed esordisce al fulmicotone: “questo l’ha trovato un archeologo”. Non è una sterile polemica contro Ferran Adrià, ma la constatazione che tutti i suoi epigoni cavalcano l’onda emotiva di una moda che non aggiunge nulla al miglioramento dell’esperienza gustativa. Questo è ancora oggi il nodo centrale della ricerca di Scabin, a dir poco scettico sulle contaminazioni contemporanee. “Schiume, sferificazioni, licheni, fermentazioni. Cosa ne resterà? Poco o nulla. Alcune di queste tecniche sono già tramontate, altre seguiranno a ruota. Perché? E’ semplice. Non appartengono alla nostra cultura. Noi siamo italiani, per la nostra memoria gustativa l’amatriciana non tramonterà mai, perché è come la madeleine di Proust. E’ nell’amatriciana, o nel vitello tonnato, o nelle melanzane alla parmigiana che si è formato il nostro ricordo. Ed è quel ricordo di bambino, di adolescente, o comunque il ricordo di un momento particolarmente piacevole a formare il gusto oggettivo. Quello che io intendo codificare”.
Dunque, l’obiettivo è quello di muovere il ricordo radicato e profondo nell’esperienza di ognuno di noi, in un processo che prevede cinque stadi: gusto, piacere, emozione, esperienza e infine ricordo. La ricerca ha successo se il cuoco riesce a confezionare la “madeleine”: un risultato decisamente non alla portata di tutti. “Posso rinchiudermi in un laboratorio per tre mesi e lavorare otto ore al giorno per creare il miglior gelato al cioccolato al mondo. Probabilmente ci riesco. Ma se quel gelato al cioccolato non ti riporta alla mente il tuo primo bacio, o la prima passeggiata sulla spiaggia di Alassio o qualsiasi altra cosa abbia segnato in maniera piacevole la tua esistenza io non ho raggiunto il mio obiettivo. Che è darti la madeleine di Proust”.
Da novello Swann, Scabin ha confezionato almeno tre piatti straordinari: la “Fassona al camino”, una cotoletta di vitello impanata nel pane e nelle briciole dei grissini, profumata alla camomilla e finita ‘al camino’ su erbe fumanti; il rognone al gin, e la paradossale “Fusione a Freddo”. Una cotoletta, una frattaglia, una macedonia che non sono state concepite solo per essere le migliori nel loro genere, ma anche per suscitare un ricordo primordiale e “atavico”.
L’X-FACTOR ATAVICO
Alla ricerca del gusto oggettivo si aggiunge un ulteriore obiettivo: individuare il ricordo più decisivo, quello primordiale. Scabin lo definisce “atavico” e la sua codificazione non è per nulla scontata: “Mi piacerebbe individuare l’emozione atavica, ma non è facile. C’è pochissima letteratura in materia, le cose che ci hanno insegnato a scuola sulla fisiologia del gusto sono state tutte messe in discussione. Quel che è certo è che la nostra percezione del gusto si sposta di pochi millimetri in decenni, diversamente della tecnologia che corre velocemente. Tra cinquant’anni mangeremo molte cose di oggi e alcune di domani, ma senza dubbio ci emozioneremo con le stesse cose di oggi e di ieri”. Il percorso che conduce all’emozione atavica è circolare, e Scabin lo definisce fantasiosamente “perversione”, da non confondere con la “trasgressione”. “Trasgressione è una linea retta che conduce a una forma patologica perché ogni volta si deve ricominciare laddove si era smesso. Perversione è invece un processo circolare, che riesce a ricreare un piacere attraverso qualcosa di già conosciuto”. Il raggiungimento di quest’obiettivo è un vero e proprio X-Factor, che potrebbe cambiare per sempre l’dea preformata di cucina che abbiamo a tutt’oggi. Tuttavia, gli elementi che definiscono l’emozione atavica sono multisensoriali, non sono legati alla sola fisiologia del gusto. “Il gusto deve dare piacere, altrimenti non vale nulla. Se dà anche emozione, il cuoco ha raggiunto il proprio obiettivo. Ma l’emozione è legata all’esperienza personale: c’è chi lega i propri ricordi alla parmigiana di melanzane della nonna e chi al gelato industriale che consumava in spiaggia da piccolo. Il gusto costituisce soltanto uno dei tasselli che scatenano l’emozione e aprono la strada al ricordo. Gli altri possono essere determinati anche da colori e suoni. Per questo la mia ricerca è complessa, e coinvolge tutti i sensi”.
Uno degli esiti di questa ricerca è il menu contemporaneo del Combal.Zero, “Up and Down”, che inizia dove tutti finiscono: con i piatti più strutturati (i secondi) perché il nostro organismo è più disposto ad accoglierli. Così le robuste ribs di cervo con mostarda e yuzu e la pluma di maialino alla Ceasar Salad precedono gli agnolotti ripieni di papero alla melarancia con salsa alle acciughe, foie gras e fondo bruno e l’etereo carpaccio di astice al gorgonzola.
Il ricordo ne esce appagato, con la sensazione che questo sia solo uno dei tanti esperimenti dell’ultimo, grande solista della cucina italiana.
RISTORANTE COMBAL.ZERO
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