Intelligenza ed equilibrio, cuore e radici. Andrea Aprea è partenopeo doc ma non ha mai avuto paura di levare le ancore e partire alla scoperta del mondo, perché Napoli e il Golfo ce li ha dentro, e non lo abbandoneranno mai. C’è una frase di Bellavista, il bizzarro personaggio reso famoso nel mondo da Luciano De Crescenzo, che potrebbe essere stata pronunciata dallo stesso Aprea: “Anche se Napoli, quella che dico io, non esiste come città, esiste sicuramente come concetto. E allora penso che Napoli è la città più Napoli che conosco e che ovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli”. Quest’anno lo chef del Vun – ristorante del lussuoso hotel Park Hyatt di Milano – ha conquistato la seconda stella Michelin. Non è stato soltanto un riconoscimento alla sua indubbia bravura, ma anche alla codificazione di un concetto ben preciso di cucina mediterranea. Quella che scava nei ricordi, nell’emozione suscitata dai piatti della nonna e dal menu delle feste, attraverso un’estrazione magistrale dei gusti primari.
La tecnica di Aprea è esemplare, frutto di grande abnegazione e della frequentazione di illustri cucine in giro per il mondo. “Ho frequentato la scuola alberghiera perché desideravo intensamente fare il cuoco e non mi spaventava l’idea di viaggiare. Dopo aver terminato il servizio militare come paracadutista, sono subito andato a Londra. Ci sono rimasto due anni, prima di finire a Kuala Lumpur, e tornare in Italia, a Sirmione prima, poi al Bulgari di Milano con Elio Sironi e infine a Palazzo Sasso di Ravello con Pino Lavarra”. L’esperienza decisiva, però, era di là a venire, ancora nella Perfida Albione. “Sono tornato a Londra, prima da Fat Duck con Heston Blumenthal, poi da Waterside Inn con Alain Roux. Sono state esperienze molto diverse, ma così formative che solo a quel punto ho capito che potevo tornare in Italia, aprire la valigia delle mie conoscenze e applicarle a ciò che sono e mi piace davvero”.
Così, Aprea approda nuovamente nella sua Napoli, al Comandante dell’hotel Romeo, dove fa molto parlare di se, per la maturità tecnica raggiunta. Dopo qualche tempo arriva al Park Hyatt di Milano, cui fa guadagnare la prima stella Michelin. E’ il primo ristorante di un hotel a Milano a ottenere il macaron, oggi raddoppiato. Segno che questo ragazzo ci sa fare davvero.
L’EREDE DEI MONSÙ
Aprea si sente idealmente l’erede dei “Monsù” (tradizione di “monsieur” secondo il vernacolo napoletano), i cuochi alla corte dei Borboni che proponevano la cucina aristocratica partenopea. Per intendersi, quelli del sartù di riso con il ragù alla napoletana, ricetta di difficile esecuzione e chiara origine francese anche nel nome. “Mi piace l’idea che la mia sia una cucina d’autore e che nelle mie radici vi sia anche una lontana tradizione d’oltralpe. Un cuoco non può prescindere dalla cultura francese anche se pratica una cucina mediterranea, storicamente priva di fondi. Io ho imparato a utilizzare il jus alla scuola di Alain Roux, e oggi, infatti, la mia spalla d’agnello (con zabaione alla senape, peperoni e melissa) non sarebbe la stessa senza l’utilizzo del fondo”. Questa preparazione è la sua interpretazione dell’agnello pasquale, storicamente presente nelle case napoletane. In generale, tutta la cucina di Aprea è ispirata dal ricordo d’infanzia o giovanile, ma anche da esperienze universali comuni che lasciano un segno. “Da qualche tempo propongo alcuni amouse-bouche, che compongono quello che chiamo “aperitivo anni Ottanta”. Tra questi, lo spriz sferificato su foglia d’ostrica, e un gioco di olive e arancia. L’aperitivo è conviviale in se, ci riporta sempre a momenti piacevoli. Ho pensato: perché non valorizzarne il gesto sotto una forma diversa?”.
LA MISTIFICAZIONE COME FORMA D’ARTE
L’essenza della cucina di Aprea risiede proprio nel travestimento, nel mutamento della forma per mantenere intatta la sostanza. Non è un caso che il suo piatto iconico, la “caprese dolce-salato” costituisca la “summa” di questa filosofia. E’ la magistrale ricostruzione di una mozzarella con una tecnica mutuata dall’alta pasticceria: una sottilissima sfera di zucchero soffiato alla maniera dei maestri muranesi che contiene una soffice spuma di latte di bufala e latte vaccino, appoggiata su una coulis di pomodoro, emulsione di basilico e acciuga. Una sinfonia esplosiva di sapori mediterranei, generata da una maturità esecutiva non comune. “La tecnica è sempre al servizio della valorizzazione dell’ingrediente, mai del suo stravolgimento. La caprese dolce-salato è un piatto tecnicamente complesso, ma preserva tutte le caratteristiche delle sue componenti”. Il rispetto della materia prima è sempre alla base della filosofia di Aprea, anche nel caso di ingredienti non complessi. “Nelle mie preparazioni la pasta è rigorosamente di Gragnano, cotta al dente, valorizzata talvolta da condimenti molto semplici, come il pecorino e il limone; talvolta più complicati, come la salsa con peperone, sarde e crescione. Se ne facessi un frullato, mi sentirei innanzitutto poco rispettoso nei confronti degli artigiani che l’hanno prodotta”.
Aprea, tuttavia, si ritiene uno chef di cucina italiana a tutto tondo, soprattutto nei mesi invernali, quando la stagione permette di valorizzare gli ingredienti tipici delle regioni del nord. Qualche tempo fa ha coraggiosamente tenuto in carta persino un ossobuco di pescatrice con zafferano, arancia e liquirizia. Un piatto tipicamente nordico che ha spaccato in due la platea. “Non mi preoccupo di eventuali critiche, perché fanno parte del percorso. Quello che so, è di essere un cuoco rispettoso della tradizione italiana da nord a sud, perché sono fiero di essere italiano. Noi chef non dovremmo avere paura di valorizzare le risorse del nostro Paese perché sono tante e tali da non dover invidiare nulla a nessuno. Credo che il futuro della nostra cucina risieda in questo, e nel detto anglosassone “less is more”: perché siamo così fortunati nella tradizione e nella qualità della materia prima, che bastano pochi ingredienti per fare piatti straordinari”.
Senza dubbio, la presenza di Andrea Aprea nel capoluogo lombardo ha contribuito ad innalzare la qualità della sua ristorazione. Lo dimostra il crescente successo del Vun, che accontenta una clientela assai variegata di gourmet, uomini d’affari e turisti stranieri non sempre abituati alla complessità delle tavole stellate. Non è azzardato affermare che lo chef campano rappresenta oggi un punto fermo della cucina d’autore italiana. Forse, è anche già pronto a raccogliere l’eredità di qualche illustre maestro che con la sua arte culinaria ha illuminato la scena meneghina e, quindi, nazionale.
RISTORANTE VUN – PARK HYATT MILANO
Via Silvio Pellico, 3 – 20121 Milano – Tel. 02 8821 1234
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