Storicamente assai legate, queste due regioni si è deciso di trattarle in un’unica tappa, cercando di giungere a una sintesi delle più rare e interessanti cultivar rinvenute e rilanciate in purezza.
Dal rutilante Gamay del Trasimeno (c’entra nulla quello del Beaujolais) all’apparentemente timido Grechetto di Todi, dall’ormai affermato Trebbiano Spoletino al rarissimo Verdello (Umbria). Dai complessi rossi Abbuoto e Nero Buono, agli strutturati e aromatici bianchi: Bellone, Moscato di Terracina e Rossetto (Lazio).
Pure nel comprensorio umbro-laziale tante sono le varietà che abbiamo individuato, lungamente a rischio di estinzione e poi rilanciate grazie alla lungimiranza, alla passione, ma anche alle sirene del mercato sempre più assetato di biodiversità, da un folto manipolo di autentici vigneron.
Se vogliamo, la selezione dei vitigni autoctoni rari di queste due regioni è stata un po’ più laboriosa del solito. Non tanto per il numero esiguo di cultivar rinvenute, ma semmai per il motivo opposto: la sovrapposizione di tanti vitigni, spesso omonimi fra loro, o appartenenti a comuni varietà-popolazione.
La difficoltà è stata dunque quella di stabilire un confine tra vitigni autonomamente considerabili, ancorché eventualmente biotipi di altre varietà, e bacche identificabili con cultivar molto più diffuse ma celate sotto altri nomi, a volte anche dialettali.
L’auspicio è di aver colto una significativa sintesi delle uve rare più interessanti di questo lembo di territorio della Penisola.
Umbria
Gamay del Trasimeno: rarità esigente in vigna ma deflagrante nel calice
Dalla seconda metà degli anni Novanta, Cantina del Trasimeno di Castiglione del Lago (PG) ha avviato un programma per la valorizzazione della viticoltura del Trasimeno, concretizzatosi nella linea “Duca della Corgna”, top della produzione enologica di questa cooperativa umbra.
Particolari energie sono state concentrate sul principale vitigno locale: il Gamay del Trasimeno; così da renderlo in grado di rappresentare le potenzialità enologiche di un territorio circoscritto ma vocato. Biotipo della grande famiglia dei Cannonau, è un’uva qualitativamente generosa, ma molto esigente in vigna. A tal fine sono stati individuati, tra i vigneti dei soci, quelli più fitti e meglio esposti. Al contempo si è avviato il rinnovo degli impianti su terreni di media collina esposti a sud o ponente, aumentando la densità di impianto, privilegiando una modesta vigoria della vite e forme di allevamento in grado di assicurare un’ampia superficie fogliare per kg di uva prodotta. Aspetto cruciale è stato il ricorso all’inerbimento dell’interfilare con specie moderatamente competitive e in grado di poter essere mantenute anche nei mesi estivi. I vini frutto di quest’opera di rilancio sono il fragrante Divina Villa “Etichetta bianca”, lo strutturato Divina Villa Riserva “Etichetta nera” e il rosato Martavello.
Grechetto di Todi: chicca ampelografica che può farsi nettare
Tra i protagonisti del rilancio del Grechetto di Todi v’è Cantina Peppucci. “Da subito (2002) abbiamo ritenuto fondamentale recuperare la tipicità del Grechetto, sempre più diluito con altre varietà sino a stravolgerne l’identità; scelta motivata dalla sua presunta scarsa aromaticità e acidità”, si presenta così
Filippo Peppucci. “Avendo noi impiantato solo Grechetto di Todi come uva bianca, eravamo viceversa convinti che, con adeguate pratiche vitienologiche, sarebbe stato possibile esaltare questa cultivar anche in purezza. Ricerca che ci ha condotti alla produzione del fresco Montorsolo.
Dal 2014 abbiamo cominciato a selezionare annualmente i nostri migliori cru, arrivando all’ideazione del Grechetto di Todi Doc Superiore I Rovi”. Vino la cui fermentazione parte in acciaio, ma che si completa (per il 30% della massa) in barrique.
A inizio gennaio il vino ottenuto viene riassemblato in acciaio, dove sosta sur lies fino a metà giugno, con bâtonnage settimanali a frequenza scalare; protocollo che si completa con una maturazione in vetro di 15 mesi.
I Rovi pur non perdendo in acidità si rafforza in struttura e in aromi terziari, così da smarcarsi dall’immediatezza del Montorsolo.
“Perché ‘I Rovi’? Per ricordarci che proviene da vigne circondate da rovi di more, ma anche per rammentarci metaforicamente l’arduo percorso da compiere per ottenere un grande Grechetto di Todi”.
Il Trebbiano Spoletino: asseconda la creatività dei produttori
Tenuta Bellafonte di Bevagna (Perugia) è tra le portabandiera dell’ormai riaffermato Trebbiano Spoletino, vitigno strettamente umbro, che ha trovato nel comprensorio di Spoleto il suo terroir d’elezione.
Si tratta di una varietà molto duttile, grazie alla sua spiccata acidità; mostra buona resistenza alle malattie fungine e matura tardivamente. Ma non ci si faccia trarre in inganno dal nome: svariati studi genetici, hanno infatti evidenziato la poca familiarità con gli altri Trebbiano.
“Nel 2013, dopo diverse degustazioni di questo vino, che ho trovato entusiasmante, ho deciso – così patron Peter Heilbron – di testarlo, con l’idea di ottenere un vino che avesse fatto macerazione sulle bucce, ma che evitasse le ossidazioni e la poca eleganza di molti dei vini ottenuti con questo procedimento”.
Nasce così l’Arnèto, che fa una macerazione prefermentativa a freddo per alcuni giorni, a cui seguono fermentazione alcolica e malolattica spontanee.
L’affinamento si svolge in botti da 50 hl, sui propri lieviti per 6 mesi; seguono un imbottigliamento senza filtrazione e 8 mesi di maturazione in vetro prima del mercato. Proprio per dimostrare la versatilità di questa bacca, dal 2018 nasce Sperella, dal più semplice protocollo enologico che porta a risultati organoletticamente più immediati, ma sempre assai interessanti.
Il rarissimo Verdello e il suo “Sperimentatore in pectore”
Così chiamato per il colore verdastro dell’acino anche quando maturo, fugato ogni dubbio di omonimia con altre varietà, fu presentato alla Mostra dell’Uva di Perugia del 1949. Stefano Grilli de La Palazzola (Stroncone, Terni) è forse l’unico che lo vinifica in purezza.
“Il nostro Verdello proviene da un piccolo giardino varietale impiantato in azienda trent’anni fa, frutto della mia ricerca di viti prefillosseriche radicate nella nostra zona.
La sua diffusione è avvenuta a metà ‘800, con l’arrivo da noi dei monaci ungheresi”. La sua capacità di accumulare zuccheri lo ha reso subito popolare, perché conduceva a vini amabili fino a primavera, lievemente frizzanti per rifermentazione spontanea, adatti per la loro acidità a essere “tagliati” con l’acqua per alimentare i contadini durante i lavori estivi.
“La Regione Umbria ha inserito il nostro specifico Verdello tra le cultivar sconosciute, dalle presunte caratteristiche distintive: speriamo che in futuro venga studiato a fondo, così da capirne le origini”.
Essendo Grilli uno sperimentatore, non ha creato a monte un protocollo enologico standard, che muta in funzione dell’annata e dell’estro del vigneron. Per esempio una delle ultime versioni commercializzate, che parte da una resa di uva in vigna di soli 50 q/ha, fermenta in barrique (malolattica inclusa), per poi affinare 150 giorni in orci di terracotta.
Lazio
Dal Piglio Zergo, l’Abbuoto ama solo il suo terroir d’origine
L’Abbuoto è un vitigno rosso originario delle campagne sud-pontine di Fondi, zona di piana racchiusa dalla corona dei Monti Ausoni e Aurunci affacciata sul mare, di antica vocazione agricola: pare che solo qui, questa rara cultivar, sia in grado di dare il meglio di sé. “Riguardo la nostra esperienza produttiva concernente l’Abbuoto – spiega Chiara Fabietti, enologo di Monte Cecubi di Itri (Latina) – coltiviamo questo vitigno da 15 anni. La famiglia Schettino, che acquistò la tenuta negli anni ‘90, rinvenne alcune vecchie vigne di questa varietà.
Nel tempo si decise di propagarla per selezione massale sino a individuare, nel 2009, come suo terroir d’elezione la località San Raffaele, a Fondi.
Dopo diverse vendemmie sperimentali, la prima annata ufficiale è stata la 2015, con il Lazio Igt Rosso Abbuoto Filari San Raffaele”.
L’Abbuoto, sensibile alla peronospora, ha una bassa resa/ha, con una produzione scostante. A livello di vinificazione presenta una scarsa colorazione, instabile durante l’affinamento.
Sicuramente, sperimentando in questi anni un’opportuna gestione delle ‘problematiche’ del vitigno, “riteniamo che i punti di forza di quest’uva siano proprio nelle caratteristiche organolettiche del vino, dove rusticità ed eleganza convivono (anche grazie a un affinamento di 6 mesi in botti grandi) e si completano”.
Bellone, matura tardi per un’esplosione di frutto minerale
In oltre 30 anni di ricerca volti all’introduzione di cultivar caratterizzate da un alto grado di interazione qualitativa con il territorio, Casale del Giglio di Latina (patron, Antonio Santarelli) ha particolarmente curato la valorizzazione di vitigni autoctoni.
È il caso del Bellone, varietà già nota in epoca romana e incluso nel Bollettino Ampelografico del 1881. La si coltiva a partire dai Castelli Romani fino ai Monti Lepini, incluso il litorale di Anzio e Nettuno (i “vecchi” solevano ripetere che il più buon Bellone viene sul mare).
Molto vigoroso, ha grappoli mediograndi, cilindrico-conici, compatti; con buccia spessa, giallo-marone, pruinosa.
Ama terreni sabbiosi, ben drenati ma freschi, come quelli che circondano Anzio. Resistente alle malattie, non matura che nella prima decade di ottobre. Grazie alla sua mineralità e relativa tannicità, sempre più spesso lo si vinifica in purezza, sprigionando note di frutta matura, pompelmo, pesca, miele e mandorle; in bocca è strutturato, caldo, mandorlato. Dal 2014 Casale del Giglio lo vinifica in assolo, ottendendo l’Anthium, da vecchie vigne di 70 anni franche di piede che producono solo 60 q/ha di uva; dopo la vinificazione, il nettare affina sur lies in inox per 6 mesi, quindi matura altri 2 mesi in vetro prima della commercializzazione.
Moscato di Terracina, prima uva da mensa, oggi enoica bacca
Cantina Sant’Andrea di Terracina (LT) è la principale interprete del Moscato di Terracina.
“La famiglia dei Moscato ha seguito sin dall’inizio la storia della nostra famiglia.
Dallo Zibibbo siciliano delle nostre origini, al Moscato di Amburgo in Tunisia dove a fine ‘800 si trasferì la nostra famiglia, al Moscato di Terracina appunto, che abbiamo trovato qui quando, nella primavera del 1964, il presidente tunisino Arbib Bourghibba ci costrinse all’esilio”, questo il racconto di Andrea Pandolfo.
Originario della provincia di Latina, forse imparentato col il Giallo, il Moscato di Terracina sino all’arrivo della fillossera era diffusissimo, sia come uva da mensa sia per la vinificazione.
Sostituito poi da altre varietà, rasentò l’estinzione. Nel 1997 Gabriele Pandolfo, padre di Andrea, fonda una cooperativa che riunisce i produttori di questa bacca, riuscendo a ottenere nel 2007 il riconoscimento della Doc Terracina. “Potrà sembrare strano – spiega Gabriele – ma la versione passita è quella più inedita, arrivata con noi grazie alle nostre origini siciliane. Storicamente venivano usate le uve di minor qualità per la vinificazione, ma negli ultimi anni il discorso è cambiato e oltre l’80% dell’uva è selezionata proprio per produrre vino.
Oggi la tipologia più espressiva da noi prodotta è quella secca, l’Oppidum; minerale per via dei suoli e del vicino mare”.
Nero Buono di Cori, complicato, personale, eclettico
L’azienda Marco Carpineti di Cori (LT) si è fatta conoscere per le sue interessanti interpretazioni del poco conosciuto vitigno Nero Buono, la cui diffusione è concentrata nel Comune di Cori e sulle pendici dei Castelli Romani.
“La storia del nostro borgo ha da sempre stimolato la nostra attività vitivinicola”, chiosa Marco Carpineti.
“Da quando sono nato, i miei genitori prima e i colleghi poi mi hanno sempre raccontato delle gioie e dei dolori che il nostro Nero Buono di Cori può dare”: dal grappolo compatto, con acini pruinosi blu-violacei, è molto sensibile alla peronospora; in alcuni anni produce molto a detrimento della qualità; teme l’umidità ed è facilmente attaccabile dalla muffa grigia.
“Ma se ben lavorata e ben esposta, è uva di grande personalità, capace di generare vini dalle intense sfumature balsamiche, di tabacco e liquirizia”.
Cultivar eclettica, Carpineti la impiega in blend, ma soprattutto la vinifica in purezza, ottenendo il personale e speziato Apolide, che affina per ben 24 mesi in fusti di rovere da 300 litri, e l’originale Kius Extra Brut, un metodo classico che affina sur lies per 36 mesi. “Ci sembra che i nostri sogni sul Nero Buono di Cori, inteso come espressione unica del nostro terroir, si stiano avverando: i clienti sono molto contenti e ciò ci spinge a migliorare sempre più i nettari che ne scaturiscono”.
Rossetto, se lo “ustioni” (a freddo) lo esalti
Famiglia Cotarella, nota realtà che opera fra Terni e Viterbo, da qualche anno ha intrapreso un percorso per rivalutare alcuni rari vitigni sull’orlo dell’estinzione. Fra questi l’antico Rossetto, dell’aerale di Montefiascone.
Una varietà a bacca bianca che, se contenuta a livello di rese produttive e ben gestita in cantina, grazie al buon rapporto zucchero-acidità e alla particolare venatura aromatica è in grado di offrire un vino di grande estratto.
“Il DNA del Rossetto – ricorda Riccardo Cotarella – è stato studiato dal professor Attilio Scienza dietro mia specifica richiesta. Il risultato della ricerca ha stabilito la sua appartenenza alla famiglia dei Greco.
Il desiderio di studiare questa varietà derivava dal suo essere potenzialmente assai più interessanti dei pur locali Trebbiano e Malvasia Toscana.
Dopo varie sperimentazioni, è stato messo a punto un particolare protocollo enologico: gli acini, prima della criomacerazione e della pigiatura, sono sottoposti a un abbattimento delle temperature che ‘ustiona’ le bucce, così da agevolare l’estrazione dei tratti varietali.
La fermentazione comincia in acciaio a bassa temperatura, per concludersi in barrique (malolattica compresa), dove il vino sosta per 4 mesi”.
Il tutto conduce a un nettare dai sentori tropicali, vegetali e di spezie morbide, con gusto ricco, rotondo e persistente, chiamato Ferentano.