
Quando Andrea Sfascia, primo produttore italiano di tabacco, decise di trasformare quello che era un casale fatiscente in un semplice agriturismo che ora è Borgobrufa, l’Umbria non era ancora meta di turismo d’élite.
“Poi è finita che mi sono stufato e ho venduto tutte le piantagioni”, racconta.
Quel casale contadino alle porte di Perugia, in località Brufa, comune di Torgiano, invece gli è cresciuto fra le mani e una concessione dopo l’altra, un investimento e ancora qualche miglioria, oggi è un resort di lusso, meta prediletta di facoltosi romani in cerca di relax, con le carte in regola per farsi notare sul mercato internazionale.
Del resto l’Umbria, nel frattempo, è diventata la nuova Toscana, o meglio l’altra Toscana, amatissima dai vip.
Dopo gli ultimi lavori, terminati nel 2019, le stelle sono cinque. Ora la SPA, fra le più grandi e belle del centro Italia, è collegata da passaggi coperti ai diversi ambienti, tutti rinnovati. Fiore all’occhiello la piscina riscaldata che si inoltra fra colline raffaellesche.
Ma Sfascia non è ancora sazio: resta un ambito in cui Borgobrufa può crescere: la ristorazione.
Per questo ha chiamato a sé un giovane cuoco della vicina Ciociaria, che a dispetto del curriculum importante, ancora attendeva la sua occasione in Italia: Andrea Impero.
Nato trent’anni fa ad Anagni e cresciuto a Ferentino, Impero condivide con i cuochi della sua terra la matericità, l’istinto verace del gusto generoso e l’attaccamento disperato alla terra. Doti che ha affinato nel corso della sua formazione erratica, senza rinnegarle né annegarle nei cliché. In casa nessuno aveva a che fare con la ristorazione, ma l’esempio di nonna Anna Maria, grandissima cuoca di arrosti e paste ripiene, che cucinava per le mense dell’oratorio, anima ancora la sua passione.
È una Ciociaria che non esiste più: quella delle donne come lei, che ogni settimane, insieme ai bambini, si recavano al forno comunale a cuocere il pane, riposto sulla scifa di legno appoggiata sul cerchietto in testa. Ed è stata lei, con il suo orto, la vigna, le galline e i maiali, la sua prima professoressa di materia prima.
Poi ci sono stati l’alberghiero a Fiuggi e le prime trattorie, a lavare i piatti e servire al bar. Finché un docente non l’ha spedito allo Schiaffo di Anagni da Guido Tagliaboschi, che a quei tempi portava avanti la bandiera del territorio insieme a Salvatore Tassa, per provare una cucina più aggiornata ed esatta. Proprio lui, cogliendone le ambizioni, ha poi combinato uno stage alla Taverna del Pescatore di Alfonso Caputo, inaugurando un sodalizio durato tre anni e mezzo.
A Marina di Cantone Impero ha girato non meno partite che mercati, continuando a studiare la materia grazie al filo diretto con i pescatori e alla pratica dell’orto.
La formazione qualificante
Dopo un anno e mezzo alla corte degli Iaccarino, prima al Don Alfonso, poi a Villa Agrippina, eccolo di nuovo a fianco di Caputo quale resident chef in una consulenza a Vladivostok; poi con Santi Santamaria a Sant Celoni per un’esperienza segnante, bruscamente interrotta dal dramma; infine ai Quattro Passi londinesi di Antonio Mellino quale chef tournant.
Passaggio questo dal sapore agrodolce: “È stato all’estero che ho iniziato a lavorare all’esasperazione una materia prima, diversa da quella cui ero abituato, per trasformarla in piatti bellissimi, tecnici, impeccabili ma standardizzati. La qualità però è altro, qualcosa che riconosci da solo e lavori da zero, perché dietro c’è l’uomo. La materia deve essere tua, ed è una consapevolezza che mi accompagna da quando ho conosciuto Caputo, il suo pensiero dietro il piatto, la ricerca del prodotto, il lavoro sul pesce, la gestione cordiale della brigata. A Marina del Cantone ero per tutti il suo figlioccio”.
Il trampolino per Borgobrufa si chiama Maritozzo: un progetto faraonico nel centro di Mosca, con caffetteria, panetteria, pasticceria e ristorazione veloce al piano terra; fine dining e laboratori al primo piano; cantina e wine bar con stuzzichini al secondo. Tutto in stile italiano. Glielo mette in mano Marco Gubbiotti, che lo forma appositamente per qualche mese a Foligno, spedendolo ad approfondire l’arte bianca nel forno del socio Ivan Pizzoni.
Le strettoie, tuttavia, sono le medesime di Londra, se possibile ancor più anguste a causa dell’embargo, anche se non mancano le prime soddisfazioni sulle guide e nella stampa specializzata. Resta indubbio il successo commerciale, con i russi che impazziscono per la carbonara ai quattro tipi di caviale, dallo storione al salmone, fino ai ricci e alla bottarga.
C’è già pronto un altro contratto d’oro per lui e per la moglie Martina Pallante, che lo affianca come restaurant manager, quando a febbraio 2019 Impero passa in ferie da Borgobrufa, parla con i proprietari e manda tutto all’aria, perdendo perfino la caparra di un appartamento. Il primo aprile la coppia si è già trasferita e fino al mese di settembre, lockdown permettendo, si dedica a battere palmo a palmo il territorio in cerca di prodotto. “Perché volevo costruire una filiera corta, cortissima, praticamente nulla.
La filiera cortissima a Borgobrufa
L’Umbria è una terra fortemente legata a quelle tradizioni, che purtroppo in Ciociaria sono andate perdute. Sta a noi cuochi contribuire a salvarle, preservando la biodiversità e supportando gli artigiani, con l’aiuto dello studio e della tecnica”.
Impero assolve a questa missione attraverso il rapporto stretto con 46 realtà produttive, 11 delle quali extraregionali: ci sono Alfredo Angeli per i cinturelli orvietani e i salumi (ma Impero fa i suoi da cintino umbro); Valentino Gerbi e il suo manzo etrusco in stile kobe; Michele Sisani e il suo progetto di allevamento Agri Simba; Laura Peri per il pollame; l’azienda agricola Moretti a Marsciano, che programma la coltivazione di 150 ettari con il ristorante; Francesco Rossi a Cascia per pecore e pecorini; Fabio Berna sul lago Trasimeno per i cereali, i legumi, l’aglione e lo zafferano. Insieme a Bio Alberti, è lui ogni anno a mettere a coltura qualche semente antica, testandola su diversi terreni, per rigenerarla e valutarne il potenziale.
Senza dimenticare la collaborazione con il Parco 3 A, centro di ricerca con il cui aiuto Impero studia le genetiche di alcuni prodotti, per recuperare quelli veramente autoctoni. Borgobrufa, infine, ha la sua azienda agricola, che produce olio, vino e uova.
Il primo ristorante di Borgobrufa, I Quattro Sensi, ha aperto nel settembre 2019, in contemporanea con la trasformazione in 5 stelle, mettendo subito a segno i primi signature, come i capellacci al prosciutto di Norcia con fonduta di Parmigiano Reggiano 24 mesi La Villa e un’abbondante spolverata di tartufo uncinato della tenuta San Pietro a Pettine, oppure la squisita trippa fritta alla romana, servita come stuzzichino, da chianina Bio Alberti, animale da lavoro che viene lavorato intero.
“I fornitori sono gli stessi dappertutto, ma i quantitativi disponibili fanno la differenza. Dato il numero dei coperti, qui non posso permettermi ingredienti rari”.
Si mangia solo alla carta, attingendo da una cantina condivisa che conta 400 referenze selezionate da Martina Pallante, con tanta Umbria, bollicine eclettiche e una corsia preferenziale per i naturali, “contadini” come la cucina.
Il fine dining Elementi di Borgobrufa, con i suoi 8 tavoli, è invece operativo da marzo in uno spazio dedicato. Serve due menù degustazione: Visione, sorta di mappa commestibile dell’Umbria, articolata e raccontata per microzone, e Ispirazione, percorso più svincolato, con aperture sul mare, incentrato sulle esperienze e la biografia dello chef. Impero resta coerente nella sua cucina materica, dove la riflessione non spegne il calore delle origini e il gusto trionfa nella sottrazione.
Più padella di ferro e brace che sottovuoto, insomma.
“Per me tecnica significa rispetto del prodotto, capire come portarlo in modo semplice sul piatto, senza passaggi di troppo”.
L’understatement è massimo all’inizio e alla fine del percorso, in un brusco moto di precucina: prima la fetta di salame proprio con pane sciapo a lievitazione naturale; poi il tuorlo dell’uovo di Borgobrufa sbattuto con lo zucchero, gesto d’amore di ogni famiglia del centro Italia. Perché il cuoco, per dirla con Cuttaia, è la nuova mamma. Mentre il pane, con diversi invii, resta protagonista del pasto nelle sue variazioni sui grani umbri.
Nel mezzo, Terra bagnata interpreta intelligentemente il pesce del Trasimeno. Sul piatto l’anguilla, vagamente paludosa, farcita della sua polpa battuta e condita come una salsiccia, poi caramellata sulla padella di ferro, è affiancata da fagiolina del lago, in purea e non, fondo delle lische, salsa di aglione e sedano di Trevi fermentato per ripulire con la leggera acidità (tecnica questa fra i pochi lasciti di Mosca). Dove l’intelligenza dello chef sta nella costruzione del piatto sul “difetto”, che sarebbe banale andare a contrastare.
Altra corsa che si è fatta notare è 3 P, ispirata alla Valnerina e ai suoi ingredienti: il pecorino prodotto in forme d’altri tempi da Francesco Rossi; la sua carne di pecora, frollata 45 giorni e servita cruda e scottata; infine la percoca dell’azienda agricola propria, sciroppata al Moscato.
Un altro produttore, Luigi Ortolani, è coprotagonista degli spaghettini alla cipolla, dove l’omaggio al maestro ideale Salvatore Tassa si confonde con la memoria involontaria di Aimo e Nadia. “La cipolla è stata uno dei primi prodotti che sono andato a cercare a Cannara. Quando ho incontrato Ortolani, però, mi ha detto che non lavorava volentieri con la ristorazione di livello, perché gli chef pensano sempre di dover inventare qualcosa di nuovo, mentre dovremmo tutti tornare a mangiare la pasta con la cipolla, che è insuperabile”. La sua è cotta sotto sale, poi lavorata in crioestrazione, alla maniera di Alléno, e utilizzata per la cottura della pasta, legata con un filo d’olio e spolverizzata di Parmigiano Reggiano 120 mesi, che bilancia la dolcezza con la sapidità e il piccante.
Notevole anche la rivisitazione della pasta dolce, tipicità del Natale umbro, messa a punto studiando i testi antichi. Viene snellita con la pasta cotta al momento e mantecata con una mousse di noci, l’immancabile spruzzata di Alkermes dell’Officina Santa Maria Novella, il classico pisto di spezie, cacao e pangrattato, il cioccolato soffiato e una dadolata di limone confit sotto sale e bruciato a sgrassare.
Anche il menù Ispirazione sposta i primi in fondo, adottando uno schema gaussiano che segue la curva dell’appetito. C’è il nugget di pollo bianco valdarnese, divertissement semiserio sul junk food, proposto come monoingrediente: di fatto una crocchetta di pollo stufato e sfilacciato, impanato con creste, collo, zampetti e tendini disidratati, fritto e servito con la maionese delle rigaglie.
E c’è il porco tonno, che lavora il cinturello orvietano come il vitello del mare, ripescando una tecnica di conservazione ancestrale.
Ma non manca, come accennato, il pesce: il tonno, quello vero, in una delicata variazione monocromatica sfumata dalle patate viola di Colfiorito come la trippa di rana pescatrice alla romana, con il suo filetto e un chutney di rabarbaro. Fino al risotto allo zafferano di Città della Pieve, sposato agli scampi crudi con la loro bisque.
Poi l’Umbria torna protagonista nella riedizione del piccione alla ghiotta sotto forma di ravioli, ripieni della polpa stufata, conditi con il fondo ristretto a mo’ di succo della leccarda, guarniti del petto scottato sulla padella di ferro e di una fettina di lardo fondente per l’untuosità.