È difficile capitare a Godia così, per caso. Già il nome della regione intimorisce, non si sa bene cosa sia: Friuli-Venezia Giulia, come un Giano Bifronte che contiene una cosa e il suo opposto. Udine e la sacra lingua (il “furlan”) da un lato, Trieste e la sua levità asburgico-levantina dall’altra. Mondi incompatibili: come nelle migliori tradizioni (pisani e livornesi insegnano) le due realtà non si amano propriamente alla follia. Ciononostante, in questo strano luogo di confine un po’ austriaco, un po’ slavo, un po’ mondo a sé, soltanto la famiglia Scarello da Godia è riuscita a creare un autentico, sofisticato tempio di alta cucina contemporanea. Con buona pace dei triestini, il migliore della regione. E, senza ombra di dubbio, uno dei migliori d’Italia.
Nasce nel lontano 1887, quando un trisavolo, ex guardia del re, ottiene la licenza per aprire un emporio di generi coloniali e tabacchi. Il paese è un crocevia commerciale, gente che va, gente che viene. Fino agli anni ’60, quando nei locali giunge il primo televisore del circondario. Soste prolungate necessitano il conforto di un buon cibo. Inizialmente la locanda apre la cucina solo per eventi e ricorrenze, poi, un po’ alla volta, i genitori degli attuali patron iniziano a trasformare “Agli Amici” in un ristorante moderno. Mamma Ivonne frequenta la scuola transalpina del Lenotre Plaisir, papà Tino diventa sommelier. La divisione delle competenze è quella attuale a parti invertite: Emanuele ai fuochi e Michela in cantina. I coniugi trasmettono la passione per l’alta cucina ai figli, che iniziano a seguirli nelle trasferte in Italia e all’estero alla scoperta di buone tavole.
Il DNA da cavallo di razza si intravede subito: dopo i viaggi, le esperienze in Francia e il contatto quotidiano con il “comfort food” cucinato da mamma, Emanuele a ventinove anni ottiene la prima stella Michelin. La sua cucina è ancora sperimentale, a volte virtuosistica, altre di matrice schiettamente francese. Ma la direzione da intraprendere gli era stata chiara già l’anno precedente, quando aveva concepito la millefoglie di filetto e foie gras con riduzione di Picolit. Un piatto da lui allora ritenuto difficilissimo, ma che valorizzava un ingrediente fondamentale del territorio. Da allora la sua cucina è molto cambiata, si è spogliata di barocchismi inutili, privilegiando pulizia nell’esecuzione e impiego di ingredienti autoctoni. “Vivo in una regione di confine, ricca di influenze culturali, ma anche di una grandissima ricchezza di materie prime. Abbiamo lago, mare, montagna. Non sono in tanti a condividere un simile patrimonio”.
La ricerca continua, corroborata da profonde letture e da una sensibilità nella scelta dell’ingrediente fuori dal comune, ha procurato all’insegna di Godia la seconda stella nel 2012. (non a caso, dagli “amici”), ma non in una qualsiasi, bensì quella che svela i segreti di una terra feconda e ricca di eccellenze note e meno note. La terra del Picolit, del Verduzzo, dei grandi vini bianchi del Collio, ma anche della cipolla di Cavasso Nuovo, del formadi frant, della misconosciuta mela Seuka del Natisone, dalla quale Emanuele ottiene una pregiata composta per accompagnare alcuni formaggi locali. La valorizzazione del territorio non si limita all’enogastronomia, ma abbraccia anche i prodotti dell’artigianato locale. I fratelli Scarello sono orgogliosi di utilizzare la coltelleria di Michele Massaro, forgiatore di Maniago (PN), che ha disegnato in esclusiva per loro un unico pezzo in acciaio inox sbalzato, bellissimo e affilato.
Emanuele si considera “uomo di campagna e di mare”, le due anime del suo territorio e della sua cucina. Ricerca erbe spontanee e radici (“purtroppo il più vicino mercato ortofrutticolo che offre una selezione di radici non è in Italia ma a Lubiana”) che mette in carta con olive e gelato alla colatura di alici: amaro, grassezza e umami in un unico, esplosivo antipasto. Nel tempo libero va per mare e laguna, tra Marano e Lignano, che gli hanno insegnato ad apprezzare il pescato autoctono (“che me ne faccio di astici e aragoste se qui posso avere la migliore pescatrice o il migliore rombo chiodato?”). Oggi in menu troviamo il branzino di lenza con verza brasata, cavolo nero e latte al cren. Una preparazione in crescendo di reminiscenze chiaramente asburgiche. Spesso nei suoi piatti la terra e il mare vanno a braccetto. Gli gnocchi con melanzane, suprema di pollo e scampi esaltano la piccola gloria locale, la patata Kennebec di Godia, vivacizzata dall’amaro del vegetale e dalla succulenza del crostaceo appena pescato. Ma, probabilmente, lo chef friulano dà il meglio di sé quando prende ispirazione da tecniche alloctone che in realtà celano ingredienti del tutto locali. Il riuscitissimo risotto mantecato al burro acido con anguilla laccata e mela verde sussurra suggestioni orientali e nord europee ma, in realtà, parla la lingua degli Scarello al 100%. “Potrebbe sembrare un piatto di cucina fusion, ma non lo è. La laccatura dell’anguilla è eseguita in un ristretto di succo di agrumi e nella fermentazione del burro mi sono ispirato al formadi frant della Carnia. Ho la fortuna di vivere in una terra che offre la materia prima adeguata a ogni tipo di preparazione”. Un piatto sorprendente, messo a punto un anno fa è il “Solo d’alghe” ovvero la personale lettura dello chef dell’insalata di mare. Un caleidoscopio di erbe d’acqua salata, dalla laguna di Grado al Sud Italia (spirulina, fagiolini, wakame, alga dulce, lattuga di mare, salicornia, muschio d’Irlanda, umibudo, foglia d’ostrica, alga nori) impreziosite da una panna cotta al lime e una crema d’uovo. Il finocchio marino è condito con scorza di limone e un botanical gin realizzato appositamente per gli Scarello. In abbinamento, un cocktail a base di succo di limone e Santon, un vermuth realizzato con vini locali e assenzio marino, che cresce nella Laguna di Grado. Infine, un altro prezioso frutto dell’ingegno di Emanuele è l’agnello “post-salè”, cotto in emulsione di vongole veraci e olio affiorato. “In Francia ho spesso cucinato l’agnello pre-salè della Normandia che, allevato vicino al mare, dovrebbe acquistarne la sapidità. Nulla di più falso: io non ci ho mai sentito il mare! Allora, ho pensato io di metterci l’elemento marino, cuocendo un agnello della Carnia con un’emulsione di olio e acqua di vongole di Grado e di accompagnarlo alle stesse vongole”.
Qui sì che si ritrova la sapidità, e un piacevole allungamento del sentore salmastro! I dolci sono quasi sempre connotati anche da una nota di salato. Il Picolit torna sotto forma di zuppa, con frutta, verdura e crema di fave Tonka e il cremoso al cioccolato viene accompagnato da peperoni grigliati e gelatina di lamponi.
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