Sembrava un sodalizio indissolubile, quello fra Enrico Crippa e Antonio Zaccardi, chef e sous-chef del premiatissimo Piazza Duomo, coinvolti in una valorizzazione reciproca delle differenze, come forse era accaduto solo a Carlo Cracco e Matteo Baronetto, le lancette indietro di una generazione scarsa. Quasi fossero i due poli di una batteria, positivo e negativo, rosso oppure blu, il formidabile pedigree classicista del primo, unito a una mano e un palato fra i più eccelsi del mondo, liberava energia dal contatto con la creatività e l’istinto del secondo. Ed è stata una stagione destinata a seminare rimpianti, quella che si è appena conclusa; ma anche speranze qualche centinaio di chilometri più a sud.
È infatti a Conversano, nella cintura di Bari, che Zaccardi ha scelto di ambientare il suo atteso ricominciamento; dentro gli spazi del Pashà, traslocato nel 2016 da Antonello Magistà e Maria Cicorella nella solennità del seminario vescovile. Un locale stellato dal 2014, già ai vertici della ristorazione regionale. Forte della presenza di un giovane maÎtre che trasuda sala da tutti i pori, come raramente accade, fine conoscitore del vino pugliese e regista di un’operazione en souplesse.
Per Zaccardi è quasi un ritorno a casa, visti i natali a Castiglion Messer Marino, paesino di 2000 anime in mezzo ai monti del Teatino, dove si è avvicinato man mano alla cucina, osservando le Virtù di mamma Erminia. “Mi piaceva osservarla ai fornelli, ma come tutti i ragazzini sognavo di fare il pilota o il meccanico, cavalcando la velocità. Poi è successo che mentre andavo a scuola, ho fatto la mia prima stagione e mi sono appassionato, al punto da iscrivermi all’alberghiero, che non ho terminato. A quei tempi la vita di paese era un mortorio, ancora non c’era la rete e io scalpitavo per scoprire il mondo. Così sono finito a Torino, dove alcuni conoscenti portavano avanti un ristorante di cucina italiana, al pari di tanti emigrati abruzzesi. Così ha avuto inizio un’esperienza bellissima, in una città che era 20 volte il mio paese. Dopo il militare ho proseguito al Miramonti di Cortina, dove ho conosciuto l’hôtellerie di una volta, che poi è stata soppiantata dalla ristorazione gourmet, e soprattutto al Parkhotel Laurin di Bolzano, dove era chef Luca Verdolini, un allievo di Uliassi che mi ha aperto gli occhi sulla gastronomia. Ed è stato lì che ho conosciuto mia moglie Angelica, pasticciera, da cui non mi sono più separato”.
“Da lì ho iniziato a leggere e documentarmi, scoprendo il mondo delle stelle. Prima c’è stato Pierino Penati a Viganò, paese natale di Enrico Crippa, dove mi sono fermato per un anno. Poi ho spedito il curriculum a Cracco e lui alle 11 e mezza mi ha chiamato: ‘Pronto, sono Carlo Cracco. Hai già finito di lavorare?’. Da Cracco-Peck ho visto le cose più fighe di sempre, incontrato persone che mi hanno fatto amare questo lavoro e capire la creatività, anche se ero solo un ragazzino. Non riuscivo a capacitarmi di quanto fosse bello lavorare in un posto del genere con una giacca del genere, all’interno di una brigata così pulita. Resta il posto migliore che ho fatto prima di Piazza Duomo. Ma io volevo esplorare anche la gastronomia estera, così ho chiesto aiuto allo chef e lui mi ha mandato all’Hotel Mosconi, due stelle lussemburghese, che serviva una cucina tipica italiana dal gusto centrato. L’Italia tuttavia mi mancava. Avevo già conosciuto Crippa attraverso i racconti di Cracco e di tutti i marchesiani, che lo avevano sempre elogiato; sapevo che stava aprendo ad Alba e ho inviato il curriculum anche a lui, per quanto inizialmente mi sembrasse un ristorante sfigato. Non volevo nemmeno andarci, perché ero abituato a numeri importanti e sapevo che quasi non si lavorava. Sono arrivato nell’ottobre del 2006, un anno e mezzo dopo l’apertura, come capo partita ai secondi, che governava Crippa in persona, quindi ero anche un po’ impaurito. E sono rimasto quasi 12 anni, assistendo a un’esplosione che non avrei mai immaginato. Ai tempi c’era già un secondo, che però ha lasciato, quindi ho preso il suo posto, perché c’era intesa con lo chef, e subito ho iniziato ad assumere mansioni creative, come avevo visto fare a Milano. I piatti accadevano con naturalezza, non nascevano a tavolino, piuttosto lavorando alla preparazione di un pezzo di carne o alla sfilettatura di un pesce”.
“Ma non si può essere secondi a vita. Angelica è pugliese, quindi a un certo punto abbiamo deciso di avvicinarci a casa e nell’aprile 2018 abbiamo accettato l’offerta di Antonello”. Un cambiamento di paradigma per certi versi scioccante, da una brigata di 20 elementi ad appena 4 toques ipercinetiche, con le attrezzature e gli spazi da riadattare. “Al mio arrivo ho lasciato praticamente tutti i piatti in carta, perché ci eravamo già sintonizzati. Ma ho portato con me altri due ragazzi, che volevano affiancarmi, e pian piano siamo riusciti a realizzare piatti più rifiniti, con l’aiuto determinante di Angelica, che lavora anche al salato; senza fare piazza pulita del passato, perché restano alcuni signature di Maria, come i taralli e le orecchiette. Li realizza personalmente e passa tutti i giorni in cucina per assaggiare le novità; per me rappresenta il palato del posto, su cui parametrare i miei piatti. In questo momento mi interessa interpretare il territorio con una diversa eleganza, perché un cuoco in Puglia deve partire dal prodotto, nel rispetto dei luoghi in cui opera. E sono gusti che mi sono sempre piaciuti, mediterranei e più leggeri di quelli abruzzesi. Mi piacerebbe avere la forza di ripartire da zero, ma forse il passato è stato troppo importante. Così mi sono portato dietro anche qualche ricetta da Alba, come mandorle e ricci di mare, che facevo già a Piazza Duomo”.
I prodotti, allora. A fare da guida sono stati Maria, Antonello e la stessa Angelica, che viene da una famiglia di contadini. “Ma curo io tutti gli approvvigionamenti. In particolare dedico i giorni liberi a visitare i mercati contadini. Uso materia quasi esclusivamente pugliese, con poche eccezioni come la ventresca spagnola. Le carni sono quelle di Michele Varvara, che erano già a Piazza Duomo, i gamberi arrivano da Gallipoli o Porto Santo Spirito”. La continuità con il recente passato si evidenzia nella centralità del vegetale e nelle spiccate acidità di matrice piemontese; ma il sol levante è tramontato in favore di un’alba mediterranea, con l’extravergine che la fa da padrone e una nuova semplicità nei piatti. Ed è forse benvenuta la scarsità di mezzi e di mani, che costringe Zaccardi a un’ineludibile emancipazione stilistica. La retromarcia è ingranata in direzione Cracco-Lopriore, con un lavoro in sottrazione su ingredienti e manipolazioni, che propizia svolgimenti ulteriori.
I menu sono due: i Piatti di Maria (da Fave e foglie ai torcinelli, dalle orecchiette alla torta di ricotta) a 90 euro e Colori e sapori di stagione, con piatti più creativi e qualche escursione extraterritoriale a 120 euro; in stagione anche il tartufo di Alba. Né mancano i fuori programma, per mantenere alta l’adrenalina in cucina.
Gli appetizer conservano l’abbondanza di Piazza Duomo, con un twist più ironico e pop, sulla falsariga di un aperitivo al bar: quindi il peperone “abbottonato”, con il ripieno di maionese ai capperi e tonno gelatinato; il lampascione fritto con gel di carpione; l’oliva ripiena di carne cruda con crema di oliva e olio all’alloro, fra un’ascolana crudista e il souvenir delle drupe curate che troneggiano nei centrotavola pugliesi; la melanzana in carpione, per i sottoli e sottaceti tipici del sud, con una fettina di lardo per il grasso e la consistenza; la burrata con rucola selvatica nelle coppette, come al bar, e il barattiero in osmosi di olio e aceto. Con i taralli classici di Maria arrivano poi le chips di patate viola bollite, congelate, grattugiate, spolverizzate di curcuma o nero di seppia e finite n forno, per un crunch singolare.
Seppia e mandorle è un piatto in variazione e in chaud/froid, che ricompone un’insalata di mare sul filo della frutta secca, complemento del mollusco per dolcezza e grassezza. Da una parte il gelato di mandorle con ricci di mare e caffè; dall’altra la crema di mandorle leggermente amare, gli allievi passati in forno per un paio di minuti a 120 °C, la lattuga per l’acidità e l’alga nori a strutturare. “È un piatto nato dall’usanza pugliese di consumare le piccole seppie crude. Un giorno arrivarono clienti che le volevano tal quali e io me le sono fatte consegnare”.
Non può che ricordare Piazza Duomo la lattuga dei contadini di Conversano, servita in osmosi di carpione con tuorlo marinato, erbe aromatiche, caprino, salse di peperoni, olive, prezzemolo, agrumi e una cialda di brodo di pollo, farina e olio che ricompone sul piatto una caesar salad sui generis.
Mentre il calamaro svolge sul piatto la sua similitudine con la catalogna: tagliato a stella e scottato in court-bouillon, sboccia come la varietà cimata nell’acqua fredda, quasi fossero palmizi in un paesaggio tropicale. Completano il piatto, in delizioso equilibro fra sapidità e amaro, la maionese di calamaro al latte di soia ed erbette aromatiche varie.
“Da bravo abruzzese adoro gli gnocchi, anche quelli un po’ callosi, con un po’ di farina in più”. Zaccardi li serve farciti a mezzaluna di ‘nduja allungata con pane e latte e saltati al burro, con un condimento di alghe e ricci, che ripulisce il palato attraverso la sensazione iodata. Ma c’è anche un risotto al pomodoro che gioca sull’omonimia con la pizza: verticalizzato su una base di aglio e acciughe, viene aromatizzato all’origano e spolverizzato di croste di pane di Altamura, essiccate in forno per mezz’ora a 160 °C e frullate nel Bimby. “Tutti ingredienti che in una cucina pugliese non mancano mai”.
Poi i secondi, fra cui spicca il carré di agnello di Michele Varvara classicamente spadellato al burro, che chiama la dolcezza della crema di mais centrifugato al naturale, più fondo classico, cipolla alla brace e rucola selvatica a strutturare. “Perché cerco di non riunire mai più di tre ingredienti sul piatto”.
La pasticceria non sfigura: i dessert coniugano il tocco gentile e la sensibilità gustativa di Angelica con l’estetica di Antonio. Vedi il cannolo di sfoglia di mela, dalla forma aleatoria e un po’ giap, che custodisce una spuma di olio D’Orazio, cultivar cellina per l’erbaceo leggero, così da evocare un cannolo fritto che fritto non è. Nasconde condimenti di carattere: il caramello salato, il cioccolato, la crema di olive nere. Più una ciotolina di sorbetto di limone bruciato, sul modello degli sgroppini ai matrimoni, ma virato sull’amaro. Olio e limone, come in una citronette; soprattutto contrasti sapidi e amari sul dolce misurato e un insostenibile leggerezza al palato.