PETITE ARVINE LES CRÊTES, TRA LE INTERPRETI PIÙ PARADIGMATICHE
La Petite Arvine è considerata originaria della regione di Martigny (Svizzera), ed è un vitigno a bacca bianca dal potenziale espressivo molto interessante.
Pare sia stata introdotta nel Vallese dai romani, attraverso il colle del Gran San Bernardo; ma questa pianta ha probabilmente di romano solo il suo nome, derivato dal latino “halvinus” che significa giallo, perché le analisi sul suo DNA mostrano un’affinità genetica con alcuni i ceppi tipicamente valdostani.
Di certo vi è che la Petite Arvine è stata introdotta ufficialmente in Valle dal canonico Joseph Vaudan, fondatore dell’Istituto Agricolo Regionale attorno agli anni ‘80 del Novecento, dal Cantone del Vallese.
Data la vicinanza e la similitudine pedoclimantica tra quest’ultimo e la regione italiana, ecco che il vitigno ha subito trovato un perfetto acclimatamento.
Si tratta di una cultivar a maturazione tardiva, che richiede di essere raccolta ben matura nella seconda settimana di ottobre, con la caratteristica di preservare bene il suo profilo acido.
Da essa si ottengono vini di fresca acidità, fruttati e quasi salmastri; tutti aspetti che promuovono la longevità di questi nettari.
L’azienda Les Crêtes è stata fra le prime a coltivarla, sin dai primi anni novanta. Oggi la linea aziendale prevede due Vallée d’Aoste Doc Petite Arvine: una versione “base”, prodotta in circa 35.000 bottiglie da uve provenienti da vigneti di Aymavilles, St. Pierre e St. Christophe (Media Valle), e una chiamata Fleur, prodotta in 3.300 bottiglie da uve provenienti dal cru Devin-Ross, situato a Montjovet (Bassa Valle).
PRIÉ BLANC CAVE MONT BLANC DE MORGEX, PRIMA CUSTODE DI QUEST’UVA
Nell’ultimo tratto della Valle d’Aosta, la Valdigne, la vite non abbandona l’uomo e si innalza fino a raggiungere i 1.250 metri di altitudine. La zona di coltivazione si estende sui terreni lungo la sinistra orografica della Dora Baltea, ai piedi dei ghiacciai del Monte Bianco. Qui nasce il Vallée d’Aosta Doc Blanc de Morgex et de La Salle, risultato della vinificazione del Prié Blanc, vitigno autoctono allevato ancora oggi franco di piede (la fillossera non sopravvive a queste altitudini), nelle sue diversi versioni, partendo dal fermo tradizionale, passando per il passito e arrivando alla tipologia spumante metodo classico.
Protagonista di questa viticoltura estrema è la cooperativa Cave Mont Blanc de Morgex et La Salle, che fonda il suo lavoro nel pieno del rispetto del “terroir du Mont Blanc”. Fantasia e tecnica consentono ai soci conferitori – eroici vignerons divulgatori del proprio terroir unico e inimitabile, orgogliosi dei loro piccoli vigneti – di esprimersi appieno, sostenuti da rigorosi protocolli enologici frutto di una continua ricerca.
Le versioni ferme di questo vino offrono il loro pieno potenziale grazie a diversi ceppi di lieviti e alla vinificazione in acciaio.
Quanto al metodo classico, nato per sperimentazione, è oggi arrivato all’obiettivo di diffondere un’espressione di bollicine autoctone inimitabili in un mercato dove oggi la tipicità è un punto di forza fondamentale.
PETIT ROUGE E GLI STUDI DELL’INSTITUT AGRICOLE RÉGIONAL
Il Petit Rouge è il vitigno (autoctono) a bacca rossa più coltivato in Valle: sono 400.000 le bottiglie prodotte in cui è presente questa cultivar, pari al 20% di tutti i vini valdostani.
Spiega Daniele Domeneghetti, enologo dell’Instiut Agricole Régional: “Negli anni ‘80 sono stati selezionati 4 cloni che si sono poi diffusi in tutta la regione, con successive selezioni massali.
Punti di forza di quest’uva sono la sua piacevolezza, il suo buon tenore alcolico e la relativa semplicità delle pratiche vitienologiche necessarie a ottenere un vino appagante e beverino.
I punti di debolezza consistono in una struttura piuttosto esile, in una trama rada e in un’acidità che tende a scemare. Per queste ragioni, viene spesso assemblato con vitigni più acidi e corposi.
Il nostro Vallée d’Aoste Doc Petit Rouge è frutto di una vigna degli anni ‘80, a 670 mslm, dove sono presenti un 15% di diverse varietà locali, che infondono polpa e freschezza, per un vino che nelle migliori annate, come la 2013 e la 2015, profuma di violette,
spezie piccanti ed erbe aromatiche”.
Il sistema di allevamento più adatto, secondo Domeneghetti, è il Guyot, anche se i mutamenti climatici in atto sono pericolosi perché abbassano la già scarsa acidità di questo frutto. Un modo di contenere il problema è quello di avere vigneti diversamente
esposti e a difformi altitudini; sicuramente una soluzione teorica sarebbe quella di giocare sulle altimetrie, andando a vitare più in alto, ma non è una opzione semplice da implementare nel breve periodo; è invece troppo rischiosa una esposizione a Nord.
Dei 7,5 ettari totali vitati dall’Istituto, 0,7 sono dedicati al Petit Rouge, per una produzione di 6.000 bottiglie. Da notare che, pur trovandosi l’Istitut nel comprensorio della sottozona Torrette, (la più diffusa denominazione a base di Petit Rouge: 300.000 bottiglie), si è optato di non sfruttare questa denominazione in quanto pedologicamente troppo eterogenea e quindi non così identitaria.