
BIANCHETTA: in cantina va coccolata
Cantine Bregante di Sestri Levante (Genova), fondata nel 1876, è stata tra le prime a credere in questo vitigno, vinificandolo in purezza, oltre a essere promotrice della Doc Golfo del Tigullio-Portofino.
Patron Sergio Sanguineti precisa subito che “la Bianchetta Genovese non va confusa con l’Albarola” che “nonostante da più parti si continui a sostenere la loro sinonimia, la ben più rara Bianchetta presenta un grappolo tondeggiante, molto piccolo e cilindrico, con acini quasi spargoli e sferici, assai minuti e serrati tra loro”.
Tratti morfologici che possono essere un punto di forza per chi, come Sanguineti, fa macerazione pellicolare, poiché risulta maggiore la superficie di contatto con la buccia, a discapito della resa. La Bianchetta Genovese, vitigno di per sé neutro, un tempo impiegato anche come uva da tavola, si presta non solo a essere vinificata in bianco, ma è ottima uva da appassimento e da spumantizzazione.
Partendo dal presupposto che è nel corso della fermentazione che questa varietà esprime i suoi odori minerali e di macchia mediterranea, ecco come in azienda si opera per esaltare i delicati tratti di questa cultivar, con particolare riferimento al Golfo del Tigullio-Portofino Doc Bianchetta Genovese Segesta.
“In primis non la raccolgo mai stramatura. Quindi sottopongo gli acini interi e diraspati a una criomacerazione di 6-18 ore, così da estrarne terpeni e polifenoli. In aggiunta, impiego lieviti che non incidono sui profumi secondari di natura fermentativa, così da lasciare inalterate le naturali caratteristiche del vitigno”.
Data la delicatezza di quest’uva, come si regola a livello di affinamento?
“Una volta conclusa la fermentazione, lascio il vino a maturare per 3 mesi sulle fecce fini, con brevi e ripetuti rimontaggi, così da promuovere lo sviluppo di sentori terziari: crosta di pane, frutta esotica, fiori bianchi, erbe aromatiche”.
Un protocollo enologico che fra l’altro consente, grazie alla maggior presenza di polifenoli e struttura, un contenuto impiego di solforosa, il cui totale non supera i 45 mg/l.
LUMASSINA: un “carrarmato” che teme solo l’umidità
“Sono entusiasta di poter parlare della Lumassina (o Buzzetto, o Mataosso), vitigno ormai sopravvissuto solo sulla costa tra Savona e Finale Ligure e nel relativo entroterra, e molto adatto per una sua vinificazione in purezza”.
Così esordisce Riccardo Sancio, titolare di Cantina Sancio di Spotorno (Savona)”.
A patto che non vi siano eccessive piogge, è una cultivar resistente alle malattie, soprattutto alla flavescenza dorata e al mal dell’esca, tanto che può raggiungere i 60-80 anni di vita, come alcuni ceppi presenti nelle vigne di Sancio; è anche assai produttiva e fortemente vegetativa.
“Necessita di spazio tra una pianta e l’altra (almeno 1,20 m), le alte densità sono viceversa controproducenti, anche per l’esuberanza della superficie fogliare; un tempo le piante più vecchie raggiungevano i 3 metri di altezza”, aggiunge Riccardo.
D’altra parte tale vigoria non può essere contenuta con potature corte, ricorrendo magari al cordone speronato o all’alberello; ciò perché la Lumassina, non avendo gemme basali fertili, non riuscirebbe in tal modo a produrre frutti; pertanto l’ideale è il Guyot bilaterale.
“Tutto questo comporta che, per raggiungere una gradazione alcolica di almeno 11,5%, è necessario effettuare sostanziali diradamenti”.
Morfologicamente il grappolo si presenta molto compatto, con acini piccoli e dalla buccia sottile, da qui – come si accennava – i suoi “mal di pancia” nelle annate piovose, quando il marciume è dietro l’angolo. Importante diventa quindi la potatura verde, per arieggiare il grappolo pur evitando di esporlo direttamente ai raggi solari, e aiutare la pelle dell’acino a ispessirsi.
“Produco tre Lumassina – racconta Sancio. Una Colline Savonesi Igt, da uve raccolte tardivamente, non sottoposte a macerazione pellicolare che infonderebbe sentori erbacei, vinificate in bianco a 16°C e con affinamento sulle fecce fini sino a gennaio.
Una Lumassina frizzante, prodotta con il metodo Charmat, chiamata Lilaria, che purtroppo, essendo imbottigliata fuori zona, non può esere etichettata come Igt né si può menzionare il nome del vitigno.
E l’originale Marì, frutto della collaborazione con Cascina Praiè. Un prodotto particolare che si caratterizza per un blocco fermentativo a freddo quando vi sono ancora 14 g/l di zuccheri naturali da svolgere; il vino così ottenuto si inocula con lieviti Baianus e si imbottiglia senza l’aggiunta finale di solfiti, con una conseguente leggera rifermentazione e la presenza delle fecce fini in bottiglia”.
MASSARDA: uva tosta che ha sconfitto la fillossera
“Parlare della Massarda, o Tabacca, è sempre difficile”, esordisce Maurizio Anfosso di Ka*Manciné di Soldano (Imperia).
Che spiega: “Nel mio caso è stata una vera e p ropria sfida contro l’inesperienza nei confronti di questo vitigno.
La storia moderna della Tabacca risale a fine ‘800, ciò perché quando la fillossera colpì le qui diffuse vigne di Rossese, risparmiò inaspettatamente quelle di Massarda, probabilmente immuni al parassita; tanto è vero che ancora oggi queste ultime sono a piede franco, frutto di ripetute selezioni massali”. Proprio questo aspetto ha entusiasmato Anfosso: il Rossese, con l’arrivo dei portainnesti, ha ripreso il suo posto d’onore, ma la Massarda ha continuato a essere coltivata senza piede americano, quindi senza alcun “intermediario” tra suolo e pianta/frutto.
“Oggi, dopo vari esperimenti di vinificazione, siamo riusciti a ottenere ciò che c’eravamo prefissati, un vino puro senza la necessità di usare troppa maestria di cantina, un immediato interprete dei nostri cru”.
Il Tabaka di Ka*Manciné, che non rientra in nessuna denominazione, proviene da vigne che si inerpicano sino a 400 m slm, dalla resa inferiore ai 60 quintali di uva/ettaro.
Una breve macerazione a contatto con le bucce a inizio vinificazione, di circa 24 ore, infonde un indiscutibile carattere, che si esprime attraverso note floreali, terrose, muschiate, pietrose, con un sorso caldo e morbido, e una chiusura fresca e sapida; sensazioni che negli anni vanno a farsi sempre più complesse e fascinose.
ROSSESE BIANCO: due secoli fa il Gallesio “ci aveva preso”
Il Rossese Bianco è un vitigno autoctono della Liguria orientale, poi diffusosi a ponente, distinto da un suo presunto clone albese e tanto meno imparentato con il siciliano Grillo, come taluni affermano.
Alessandro Anfosso, titolare dell’omonima Tenuta di Soldano (Imperia), racconta:
“Le piante ad alberello di Rossese Bianco che ho ereditato sono prefilosseriche; una piccola quantità dimora a Poggio Pini a Soldano e un altro micro appezzamento è sito in in Luvaira, a San Biagio della Cima; oltre a questi ceppi franchi di piede, abbiamo impiantato – sempre a Luvaira – un nuovo vigneto di 1.500 mq, questa volta portainnestato”.
Le caratteristiche di questo ormai raro vitigno, sono splendidamente illustrate nella Pomona Italiana del Gallesio, dove si descrive la cultivar in oggetto come vigorosa, dai tralci marroni, divisi in nodi spessi e rilevati, e con foglie piccole.
I grappoli sono minuti, spargoli lunghi e regolari. Gli acini sono piccoli, tondi; la loro buccia, in partenza bianca, si tinge durante la maturazione di un rosso sfumato che ha dato il nome al vitigno.
Il Gallesio sottolinea poi la qualità e la finezza del vino generato da questa varietà, “bianco, sottile, secco, spiritoso e di serbo, e se la vite è in luogo aprico, somiglia ai vini del Reno.
Quando se ne limita la fermentazione prende un pizzico che piace a molti e, quando è concentrato, acquista uno spirito che lo avvicina al vino di Madera.
Né le sue qualità hanno cangiato col variar dei secoli: esso è ancora al presente un vino squisito; e potrebbe stare al confronto dei migliori vini di Europa, se i nostri agricoltori, più solleciti della qualità che della quantità, coltivassero la vite con più riserva, e dessero alla fattura del vino le cure e le diligenze che vi impiegano gli oltramontani”.
Quanto risultano moderne e lungimiranti queste considerazioni scritte quasi due secoli fa… Sottolinea Anfosso: “Purtroppo si tratta di una varietà quasi abbandonata per la sua scarsa produttività, a favore dell’uva Bosco nelle Cinque Terre, e del Vermentino più in generale; eppure capace di generare nettari sontuosi e dotati di grande longevità, come dimostrato da alcune nostre bottiglie stappate di recente e risalenti agli anni ‘80 e ‘90”.
Il Vino Bianco Antea, da uve lasciate macerare intere per 4 giorni, con una vinificazione in acciaio che si protrae per un mese a 14°C, matura in tonneaux di acacia, dove svolge anche la malolattica, per circa 8 mesi. Si caratterizza per note di lieviti, foglie di limoncella, cedro, mango, muschio, ricordi salmastri e di erbe secche aromatiche, sino a sentori di mela, pera, castagne e pinoli, quasi a ricordarne le sue origini; caldo secco al palato, offre un grande equilibrio tra calore, polpa, freschezza e morbidezza.
SCIMIXÂ: piace alle cimici, ma è davvero un portento
Si tratta di un vitigno sicuramente ligure, molto diffuso un tempo nell’entroterra di Chiavari e nella Val Fontanabuona.
Il suo particolare nome sembra derivare dal fatto che la punteggiatura presente sull’acino ricorda la forma delle cimici, chiamate in dialetto scimiscià. Altre versioni fanno risalire il nome al fatto che tale insetto par esser ghiotto di quest’uva. Oggi lo si trova sporadicamente coltivato in Val Graveglia a Mezzanego e nel Chiavarese.
Uno tra i principali interpreti di questa varietà è Piero Lugano, titolare di Bisson, a Chiavari (Genova), che racconta: “Il primo approccio con quest’uva l’ho avuto circa 10 anni fa, il giorno in cui mi si presentò un anziano signore di nome Bacigalupo. Costui, all’epoca, era l’unico a coltivare un vigneto di Cimixà in purezza; mi volle incontrare per annunciare il suo interesse a vendermi l’uva dell’imminente raccolta della sua vigna. Proposta che io accettai.
Credetti subito in questa operazione, tanto che – dopo una prima vinificazione sperimentale – decisi di riprodurre per innesto il vitigno, gettando le basi della mia produzione attuale”.
Di aspetto molto particolare, presenta pampini color terra di Siena.
Anche le foglie hanno tinte curiose, con sfumatura bluastre.
Il grappolo non è molto compatto: a volte spargolo, gli acini hanno media dimensione, con una buccia coriacea e resistente (adatta per le vendemmie tardive); piuttosto contenuta la resa in mosto. Ne scaturisce un nettare polposo, sapido, caldo di alcol ma fresco di acidità, armonico e persistente, dai profumi delicatamente aromatici di frutta, fiori gialli e macchia mediterranea.
Bisson ne produce due versioni in purezza: L’Antico e il Golfo del Tigullio-Portofino Doc Çimixà Villa Fieschi; quest’ultimo da un cru ubicato a Sestri Levante.
Entrambi sono affinati in acciaio sulle proprie fecce fini per 6-8 mesi, così da esaltare il loro carattere minerale, iodato e di pietra focaia, polposo e quasi materico, dai profumi ricchi e complessi.