Un pioniere. Un punto di riferimento inderogabile. Pietro Zito è una sorta di pietra miliare per la sua regione, la Puglia, che ha saputo valorizzare prima di ogni altro nei suoi aspetti più identitari.
In tempi non sospetti infatti, quando quasi nessuno attorno a lui si preoccupava di salvaguardare tradizioni e ambiente, lui cercava i sapori della memoria attraverso l’esperienza di quegli anziani che conoscevano ogni erba o pianta spontanea di un territorio tanto affascinante quanto trascurato fino a poco tempo fa.
Uno straordinario lavoro di recupero filologico che ha aperto la strada via via ad un fiorire di iniziative imprenditoriali importanti: ristoranti che hanno dato lustro ai prodotti della terra, piccole e medie aziende di trasformazione che hanno allargato il loro commercio anche fuori dalla regione, alberghi finalmente adeguati ad accogliere un turismo consapevole.
Ma lui, Pietro, questo movimento aveva cominciato a generarlo già anni fa, divenendo in breve una meta sempre più nota per chiunque andasse cercando quei sapori in via di estinzione, spesso scomparsi sotto il velo soffocante dell’omologazione.
Lo ha fatto senza i riflettori di oggi, convinto che la gestualità della cucina rientri nelle normali azioni che ogni cuoco mette in atto quotidianamente per sé e per i propri ospiti e non una esibizione plateale: per gli spettacoli esistono altri posti; un pasto non deve far battere le mani, dev’essere piuttosto come una stretta di mano tra cuoco e cliente. Cucinare appartiene alle cose necessarie e le cose necessarie alla fine sono le più semplici di tutte.
Fare il cuoco alla Pietro Zito significa adeguarsi alla natura, aspettarla e rispettarla e poi, attraverso una ricetta, amalgamarla insieme al proprio pensiero.
La Puglia di Pietro è fatta di storie e di ricordi e il retrogusto della sua cucina è proprio questo.
L’INTERVISTA
Ci troviamo in un periodo in cui ogni cosa in cucina viene spettacolarizzata. Quanto è importante oggi la semplicità?
La semplicità per me è uno stile di vita, è il mio pane quotidiano. Dieci anni fa sono stato in un ristorante a San Vito dei Normanni dove mi hanno servito uno piatto semplice: spaghetti con fagiolini e pomodoro fresco. A distanza di dieci anni io quel piatto lo ricordo ancora. Ero imbarazzato dalla semplicità di un piatto che ho trovato davvero eccezionale. Un’altra volta ero a Roma con mia figlia e lei aveva ordinato della pasta al pomodoro: era così buona che speravo ne avanzasse un po’ per me. Da quel giorno nel mio ristorante ho introdotto “pasta al pomodoro”, un piatto semplice ma difficile che è sempre in menu, con 3 tipi di pomodori ben maturi e con 3 tipi di lavorazioni diverse: un omaggio al pomodoro allo stato puro.
Qual è la tua visione della cucina italiana oggi? Secondo te, dove stiamo andando?
Negli ultimi anni abbiamo trasformato in cuochi futuri commercialisti, ingegneri e avvocati, senza metterli al corrente di tutte le difficoltà che questo mestiere comporta: sacrificio, privazione, ecc. Dunque abbiamo corso il rischio di perdere una parte di professionisti italiani, ma sono tanti in realtà coloro che non hanno seguito più la propria passione di cucinare.
Al di là delle mode e dei modelli televisivi che creano aspettative irreali e una creatività esasperata, adesso stiamo andando verso la semplicità. La gente vuole inoltre una cucina che non sia solo luogo del cibo ma un armonioso contesto familiare, dove il cibo è un complemento di quello che è la tavola: convivialità.
Chi viene a mangiare da Antichi Sapori?
Sono sempre di meno (per fortuna) le persone che vengono da me munite di telefonino. Da me viene chi poi fa una passeggiata nel mio orto e capisce che dietro c’è del sacrificio, c’è una passione importante. Venire da me solo per mangiare non ha senso. Penso che chi siede alla mia tavola ha la sensibilità di capire che dietro i miei piatti c’è del lavoro e dell’impegno. La gente deve mangiare da me con una certa partecipazione, deve comprendere l’aspetto umano che sta dietro ad un piatto, non solo l’aspetto estetico. Mi piace che la gente sia curiosa al punto da chiedere da dove arrivano i prodotti che offriamo.
È la natura che governa l’uomo o è l’uomo che la governa? Ormai tutto sembra essere sempre a portata di mano e, anche se un prodotto non è stagionale, è quasi sicuro che possiamo ritrovarlo in un piatto. Alcuni ingredienti quindi sembrano una forzatura dell’uomo. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
Prima il contadino era la persona più povera e umile del mondo. Ora invece è un imprenditore. È l’economia che ci cambia la vita, influenzando anche la cucina. Bisogna capire però che la cucina ha regole ben precise, ad esempio la stagionalità. A ottobre io avevo ancora le melanzane sul menu del mio ristorante perché faceva ancora caldo. Ora abbiamo una marea di erbe spontanee. È inutile ricorrere a prodotti che non appartengono al loro periodo vitale. Noi cuochi dobbiamo adattarci a quello che abbiamo. La bravura, la vera originalità sta nel reinventare quello stesso prodotto, presente in abbondanza, in più modi differenti.
C’è un’attenzione costante al tema della sostenibilità ambientale che chiaramente si riflette in cucina (vedi il km 0, il biologico). Tu sei stato un po’ il precursore di tutto questo…
Io penso solo che non bisogna farsi ingannare dalle mode del momento e da come vengono comunicate. La realtà di una cucina è differente: c’è tutta una filosofia educativa che parte dalla persona e che arriva fino al rispetto dell’ambiente.
Se non in Puglia, dove altro ti vedresti in cucina? C’è una regione che ti piacerebbe raccontare nei tuoi piatti?
Mi vedrei in tutti quei posti dove c’è tranquillità, magari in un paesino di montagna dove la gente che viene nel mio ristorante, viene a trovare Pietro e il suo mondo di scelte sincere.
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