C’è un ‘centro’ nella cucina piemontese. Non un centro geografico, e neppure ideale. Piuttosto un punto di convergenza, una sorta di baricentro di «gravità permanente», che sottende la complessità gastronomica di una tradizione secolare, indivisa fra sontuosi piatti nobiliari e povere pietanze di derivazione contadina.
Non è un caso che la gastronomia piemontese sia fra le più ricche e variegate del nostro Paese. Sostanzialmente per due motivi: il primo storico, il secondo geografico. All’ombra della corona sabauda, che ha garantito una continuità di potere di oltre cinquecento anni, sono nati e si sono consolidati un patriziato ricco e operoso e una borghesia intraprendente e rampante.
Allo stesso modo, all’ombra della corona alpina che cinge la regione, in un paesaggio assai multiforme fatto di pianure, vette, laghi e colline, si sono intrecciati, grazie all’ingegno popolare, tanti prodotti di diversa origine, frutto di agricoltura, allevamento, pesca e alimurgia.
Alla ulteriore definizione di questi usi e costumi di cucina, complessi e stratificati, hanno poi dato il loro contributo anche le influenze che giungevano dalla Francia (nel XVIII secolo i cuochi della corte di Torino arrivavano da Versailles, al seguito delle regine consorti, perlopiù di stirpe borbonica) e la relativa vicinanza alla costa ligure.
Già fra Settecento e Ottocento, a conferma della forza della tradizione piemontese, appaiono due ricettari che iniziano a codificare quelli che sono i piatti che ora vengono indicati come ‘specialità’ della regione: nel 1766 appare, anonimo, Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, mentre nel 1843 Carlo Mussa dà alle stampe il suo Il cuoco piemontese che insegna facilmente a cucinare ogni sorta di vivande in grasso ed in magro, di più insegna il vero metodo pel pasticciere e confetturiere.
Fra le pagine si incontrano molte preparazioni sontuose, come la finanziera, il bollito, il gran fritto misto, lo zabaione al Marsala, il bonet, la pasticceria, mentre altre, di derivazione più povera, prendono a far capolino, in una commistione fra alto e basso affinatasi negli anni, all’insegna del piacere della tavola.
Anche perché un tratto accomuna le due tradizioni: i piatti nobiliari sono ricchi di ingredienti e le preparazioni sono spesso elaborate.
Quelli contadini non sono da meno dal punto di vista del gusto, seppur realizzati partendo da materie molto più povere. Ecco quindi la bagna cauda, il caponet, la panissa, i tajarin al ragù di salsiccia, le grive (sorta di polpette di lombo e fegato di suino avvolte nella rete di maiale)… e i tanti altri piatti che ora sono patrimonio del territorio piemontese.
Il punto di convergenza di questi molteplici precipitati è ‘il luogo’ per eccellenza ove si sublima una ricca tradizione, ove le ricette del passato incontrano i modi espressivi del presente, ove i prodotti regionali diventano vessilli di gusto.
Tutto ciò accade a Il Centro, storico locale di Priocca d’Alba, sulle colline del Roero che affacciano verso il Tanaro e le Langhe. La famiglia Cordero lo gestisce dal 1956, da quando, in una tiepida notte d’inizio estate, Pierin Cordero sente bussare alla porta di casa. Apre con un po’ di titubanza e si trova di fronte due personaggi noti che, senza troppi indugi, lo invitano a comprare Il Centro.
I due uomini – due mediatori – lo avevano individuato come il più idoneo a dare continuità all’epopea di una insegna che da oltre cento anni proponeva, fra Cuneo e Asti, una delle migliori cucine del territorio.
Erano certi che Pierin sapeva il fatto suo ai fornelli perché aveva una lunga esperienza maturata come aiuto cuoco di un ristorante ai tempi molto in voga ad Alassio. Non che il prezzo fosse del tutto abbordabile, ma allora a fare la differenza in un locale erano i biliardi, i mazzi di carte e le stufe a segatura… tutti elementi che erano sintomo di assidua e forte frequentazione.
Due milioni di lire nel ’56 erano soldi, ma di buon mattino l’affare è fatto. Pierin, con la moglie Rita, si rimbocca subito le maniche per cominciare a delineare quella che sarebbe stata un’epopea che continua ancora ai nostri giorni.
«Ricordo – dice il figlio di Pierin, Enrico, che ora gestisce Il Centro assieme a sua moglie Elide e a suo figlio Giampiero – che in cucina fu nonna Lidia ad aiutare i miei genitori. Allora avevo quattro anni: nonna Lidia portò conoscenza ed esperienza, maturate attingendo allo straordinario compendio di quella cultura gastronomica popolare in grado di trasformare una risorsa povera in piatti di eccellenza. Fu grazie a lei che la fama del Centro crebbe rapidamente, consentendo ai miei genitori di acquistare anche i muri dell’immobile».
Al fianco di Lidia, anche Rita porta il suo contributo, imparando velocemente a gestire la cucina, tenendo ben salda la rotta quando, nel 1970, Pierin viene a mancare. Enrico, appena maggiorenne, interrompe gli studi per aiutare la madre e prendere in mano la gestione del Centro: «All’inizio non fu facile, abbiamo avuto difficoltà e fatto sacrifici, ma grazie al sostegno dei tanti che avevano iniziato a frequentare il Centro con assiduità siamo riusciti ad andare avanti.
Mia madre rimase fedele alla cucina che le aveva insegnato mia nonna: una cucina territoriale e genuina. Autentica nel vero senso della parola.
Le persone arrivavano anche da molto lontano per i suoi tajarin, la sua finanziera, il suo fritto misto».
Nel 1983, quasi per caso, la moglie di Enrico, Elide (che lavorava in una nota azienda di abbigliamento della zona), entra nella cucina del Centro. La suocera, intuendone capacità e passione, come già era accaduto a lei con Lidia, le lascia sempre maggior spazio, trasmettendole le proprie conoscenze.
Elide, lasciato l’impiego, inizia, da autodidatta, ad affiancare Rita ai fornelli: «Io sono cresciuta con i profumi e sapori di una cucina di casa. E all’inizio per me sono stati fondamentali gli insegnamenti di mia suocera e di mia mamma Francesca».
Piano piano, Elide, spinta dal desiderio di perfezionare ulteriormente le proposte, inizia a imprimere ai piatti una sua impronta personale, pur nel rispetto della tradizione.
La cucina evolve in grazia e con enorme senso della misura: i profumi e i sapori diventano ancora più netti e puliti, e le ricette sono ulteriormente alleggerite, sempre tenendosi al passo del gusto contemporaneo e senza mai tradire la memoria, il territorio, i suoi straordinari prodotti.
Dal 2016 Elide è affiancata da Joan Marc Espadas, giovane cuoco spagnolo con grandi esperienze internazionali e una vibrante passione per la cucina piemontese. Affascinato dall’atmosfera che si respira al Centro, ne ha sposato l’idea guida: recuperare le antiche ricette della tradizione, reinterpretandole nella tecnica.
L’ospite che prende in mano per la prima volta la carta del Centro, in genere rimane sorpreso tanto sono invitanti e golosi i piatti proposti (che mutano di stagione in stagione): cosa scegliere quando si vorrebbe provare tutto? Un assaggio di prosciutto in gelatina o di trota in carpione?
Attraenti pure le animelle con funghi e rucola, ma come rinunciare a un assaggio di carne cruda battuta al coltello, di vitello tonnato o di insalata russa? E i primi? Altro dilemma… Tajarin o agnolotti? Risotto con le rane o gnocchi coi porcini? Per non dire dei secondi piatti… il tenerissimo codone di Vicciola (razza Piemontese allevata a nocciole) o le lumache al verde?
La lingua in salsa giardino o il pollo alla cacciatore?
Ma la passione per la ricerca e la tensione alla perfezione è tratto che accomuna Elide a Enrico e ai loro figli Valentina (che lavora negli Stati Uniti) e Giampiero.
Il Centro è un progetto in costante evoluzione: lo è sempre stato, sin dai tempi di Pierin. Enrico, per esempio, ha costruito negli anni solidi rapporti con agricoltori, allevatori, casari e fornitori, così da potersi garantire sempre ingredienti di nicchia di altissimo livello. Ugualmente, anche per le sue doti di grande umanità, ha creato solide amicizie con tutti i più noti produttori di vino del Piemonte, riuscendo quindi a organizzare una cantina fornita come poche.
Su questa strada lo ha seguito e quindi affiancato il figlio Giampiero che, dopo essersi diplomato in Enologia ad Alba, ha maturato diverse esperienze nel settore del vino e della ristorazione.
Ora è Giampiero a curare una carta dei vini assai ricca, che spazia dalle grandi etichette langarole e roerine al resto d’Italia, e poi alla Francia e alle più note zone vitivinicole del mondo. Però, Piemonte a parte, è la Borgogna la grande passione di Giampiero.
Una passione coltivata negli anni e alimentata da innumerevoli viaggi fra Beaune e Digione che lo hanno portato a conoscere personalmente molti fra i più blasonati (e irraggiungibili) produttori di quella straordinaria regione.
Ma – si diceva – la passione spinge continuamente la famiglia Cordero verso nuove sfide. Da alcuni anni Elide ha impiantato, a pochi metri dal ristorante, un orto: l’appezzamento di circa 100 mq rifornisce il ristorante di verdura, fiori ed erbe fresche, coltivati in maniera naturale, senza l’utilizzo di pesticidi e trattamenti chimici, per esaltare al massimo le caratteristiche organolettiche di ogni prodotto.
Altro importante progetto è quello di Dimora Cordero, un affascinante relais di charme in una antica casa, aperto alla fine del 2019. Posto ad appena venti metri dal ristorante, conta sei meravigliose camere, affacciate sulle colline del Roero, con giardino, zona benessere e piscina.
Un luogo che, per la raffinata eleganza dei dettagli, è la naturale prosecuzione del ristorante. E dove è obbligatorio fermarsi a dormire per vivere appieno un’esperienza al ‘centro’ della grande cucina piemontese.