
Non sono stata fin dall’inizio della pandemia quella che scriveva “andrà tutto bene”. Non ci credevo nel febbraio scorso e non ci credo a maggior ragione neppure ora.
Eppure neanche nei fittissimi scambi di opinioni su Facebook o su Whatsapp intrattenuti con chi lavora nell’ho.re.ca. ho mai pensato di cavalcare l’onda del malcontento, delle inutili lamentele, delle accuse e della pur legittima preoccupazione. Io sono per resistere, per capire cosa fare, per ricostruire.
Ciononostante non posso nascondermi che un blocco così prolungato, soprattutto nel settore del turismo e dell’accoglienza, ha prodotto e produrrà effetti devastanti, in molti casi permanenti.
Ritengo tuttavia che il male peggiore non sia solo quello di un’economia al tracollo, bensì l’instaurarsi delle fobie derivate dal “distanziamento sociale“, perchè, di fatto, è questo che impedisce la vera ripresa.
I metri di distanza fisica sono diventati chilometri di distanza psicologica: la paura dell’altro, quando non ha generato diffidenza, insofferenza, aggressività, ha inculcato comunque in molte persone l’idea che tra le spese non più necessarie ci sia anche il pranzo al ristorante. Così, alla riduzione dei tavoli, si sta sommando la defezione di chi – per paura o per difficoltà economiche – sta disertando i luoghi fino a ieri frequentati per il proprio benessere. Senza contare la disastrosa assenza di turisti dall’estero.
Ricucire le maglie di un tessuto sociale compromesso non sarà facile, tanto che alcuni locali che hanno tentato la riapertura, stanno già chiudendo perchè impossibilitati a lavorare, ma costretti a ottemperare ugualmente al pagamento dei troppi balzelli comunque imposti.
La storia è sempre stata caratterizzata da mutamenti epocali davanti ai quali o ci si ferma o ci si rimette in gioco. Pronostici e ricette sicure non ce ne sono: la clausura coatta vissuta nei mesi scorsi potrebbe aprirci ad una normalità meno patologica di quella vissuta fino a oggi.