
Anche il mondo dell’alta ristorazione, così come tutti i settori produttivi, sembra volersi mettere in discussione dopo i contraccolpi che il lockdown ha generato e che il web ha evidenziato.
Il tam tam sulla generale mancanza di manodopera, sull’eccessivo sfruttamento del personale sia in termini economici che di orari di lavoro, sulla diffusione del falso mito di una professione dal successo mediatico facile, ha messo in luce le vistose crepe di un sistema oggettivamente molto problematico.
Così anche quel comparto finora immune da critiche, in quanto sacralmente protetto da una narrativa compiacente, comincia ad avvertire i prodromi di un sempre più diffuso malumore e, di conseguenza, di accuse sempre meno velate: mai, prima d’ora, avevo potuto leggere su web e giornali così tanti commenti negativi riferiti al mondo dell’alta ristorazione.
Insomma, colpevoli di favorire il perdurare di malsane forme di lavoro in una società in palese crisi sia economica che di valori, sarebbero ormai anche loro, i grandi chef strapagati, strasponsorizzati, straincensati rispetto a una “classe operaia” che non si riconosce più nelle dinamiche di una ristorazione bella e impossibile.
E siamo ai convegni sul presente e sul futuro di una cucina in crisi di identità, alla convocazione di immediati tavoli politici di discussione, ai proclami e ai buoni propositi, forse comunque tardivi.
Ma il vento sta cambiando e l’apparente “mea culpa” della categoria, quandanche fatto con sincera contrizione e spirito costruttivo sotto il prossimo albero di Natale, non basta più.
Bisogna concretamente mettere mano a quel cambiamento strutturale di cui il settore della ristorazione ha effettivo bisogno.
Auguri.