“Non mi sviolinare troppo, la mia resta une cuisine de maman, come dicono i francesi. E se ci sono cose che i ragazzi devono imparare da me, sono la modestia e la voglia di lavorare: chi l’ha fatto ha avuto successo”. È la prima ad arrivare e l’ultima a partire, Pina Beglia, da quando a metà maggio i suoi Balzi Rossi hanno riaperto a Ventimiglia, restituiti alla grandeur che meritavano da 4 mesi di ristrutturazione integrale. Risate giovanili e iridi vivaci sullo sfondo altrettanto blu delle vetrate sul mare, fra arredi bianchi e lineari. Edificato nell’Ottocento sopra un bunker a pochi metri dal confine francese, ai piedi delle rocce scavate di grotte preistoriche che danno nome alla località, il ristorante adesso è bellissimo, con la terrazza affacciata sulla danza dei banchi di posidonia e la vista che percorre la Costa Azzurra. Anche gli spazi sottostanti, sul livello del mare con futuro attracco per le barche, sono stati recuperati: vi si allunga un tavolo conviviale e se ne diparte una scaletta che conduce alla cantina interrata. Al suo posto è rimasta solo la Molteni rosso fuoco disegnata a suo tempo da Alain Ducasse, habitué della casa.
“Cuisine de maman”, celia Pina. Alla maniera di una Mère de Ventimille, però, perché di stelle lei ne ha avute 4: 2 Da Gino, ristorante dove aveva iniziato a lavorare per amore; due ai Balzi, dove nel 1982 si era spostata con il marito Andrea. Un record per una regione la cui ristorazione si è poi inabissata con la verticalità delle scogliere nel mare. “Quando vedo i cuochi odierni, penso che quelli bravi sono loro, però. Perché io ho imparato tutto da sola, cucinando con mia cognata e facendo qualche stage, da Alain Ducasse ed Ezio Santin; soprattutto spendendo un patrimonio al ristorante, perché i posti importanti li ho fatti tutti: Georges Blanc, i fratelli Troisgros, Paul Bocuse. Erano tempi in cui il pesce si cuoceva intero e si sporzionava in sala, le lasagne venivano cucinate nelle teglie e poi riscaldate. Cosicché piatti espressi e individuali, come quelli che facevo io, erano già innovazione”. Ingredienti del mercato, per esempio pesci delle barche del posto; cotture brevi e leggere, magari al vapore; ispirazioni regionali con sprazzi di creatività pura: quella di Pina è stata una nouvelle cuisine in salsa ligure che ha lasciato il segno, anche fuori dai confini regionali.
Fra i suoi allievi prediletti c’è sicuramente Davide Palluda, regista della transizione in corso. È stato lui, interpellato dai Beglia, a suggerire il nome del suo secondo Enrico Marmo per affiancare Pina in cucina, dopo l’addio della storica spalla Alfio Gadaldi, la cessione dell’attività in mani russe e una breve gestione che non ha lasciato rimpianti, ma piuttosto nostalgie del passato. Tanto che Pina ha dovuto riprendere la giacca dal chiodo, mostrare a Marmo come preparava i suoi cavalli di battaglia e aprirgli le porte di casa per sfogliare libri e menu. Tanti suoi piatti restano in carta, magari sottoposti a lievi attualizzazioni: la torta verde, il “mi capun magro”, i calamaretti ma con la parmentier, i “classici ravioli della Pina” (piemontesizzati da una sfoglia tutta tuorli, con il ripieno di coniglio, rucola, spinaci e mascarpone e il fondo di cottura a condire), il polpo alla griglia (variato nella guarnizione di olive taggiasche essiccate); in prospettiva anche autentiche premonizioni quali la “retata di mare”, prototipo di ogni insalata espressa, e il gelato all’extravergine con crumble di scrocia, la sbrisolona locale, ideato come dessert di un menu all’olio nel lontano 1994. Scusate se è poco.
Il resto della carta porta già la firma di Marmo, in continuità con Pina anche grazie agli insegnamenti di Palluda, cuoco materico, neoclassico, permeato di influenze rivierasche. Ventotto anni, nato a Canelli, svezzato alla cucina dalle nonne, Irma bionda e Irma mora, già convenute a Ventimiglia per assaggiare i loro gnocchi in tavola, Enrico aveva già girato prima di affiancarlo a Canale per 5 anni: alla Signora in rosso di Nizza Monferrato, presso l’Enoteca di Canelli, ad Alma, al Gellius di Oderzo e per un anno da Cracco con Matteo Baronetto, folgorante per creatività e istinto puro. “Anche se mi sento più vicino a una cucina tradizionale e femminile, come quella di Pina”, dice alla sua prima prova da chef.
La continuità è nella filosofia, che privilegia il prodotto del mercato, sottoposto ad elaborazioni minime ed espresse, che non ne travisano la riconoscibilità, e nella rete dei fornitori. Cominciando dai tremagli di due barche, che insieme a un commerciante riforniscono ogni mattina il ristorante di quanto hanno catturato in mare, previa telefonata serale (oggi è stato il turno di triglie, totani, besughi, aragoste e di uno spada da 7 chili; mentre i pregiati gamberi viola arrivano la sera). L’abbattimento è riservato solo alle tipologie da servire a crudo, talvolta ai gamberi e alle ricciole dalla polpa più nervosa; il resto viene rapidamente esaurito in giornata. Più difficile accaparrarsi gli strepitosi ortaggi locali, solo in parte disponibili al mercato cittadino, dove espone porcini e ovuli il fornitore di Colagreco. Ma qualcosa continua ad arrivare dal Piemonte, seguendo la filiera di Palluda: la carne bovina come i piccioni Greppi, le nocciole e soprattutto il tartufo bianco, che sarà protagonista in stagione di un menu dedicato.
Il risultato è una carta in movimento, aggiustata ogni mattina sulle disponibilità effettive, dove per esempio il crudo iniziale con pesca e limone, in omaggio a un’intuizione di Pina, può essere a base di tenerissime seppie, tenute sotto ghiaccio e affettate finemente, quasi amidacee per collosità e dolcezza, oppure fettine di spada, magari con l’aggiunta di senape in grani. Il degustazione è così composto di 3 antipasti, 1 primo, 1 secondo e 1 dessert secondo il mercato, al prezzo di 65 euro; con l’alternativa di una piccola carta che elenca 5 proposte per portata. Piatti che viaggiano sugli avambracci della figlia di Pina, Rita, e di suo marito Franco Baracca, sommelier e autore di una carta dei vini da 300 etichette, che copre un po’ tutte le fasce di prezzo, senza necessariamente indulgere a mode quali localismo, autoctonia e naturalità.
Con l’ottima focaccia alle olive taggiasche, i piemontesissimi grissini stirati all’olio di colatura e la ciabattina all’acqua arrivano in tavola i frittini iniziali, tipicamente liguri e racchiusi in uno scrigno: l’acciuga ripiena di prezzemolo, pane e polpa di acciuga, il barbagiuai di pasta matta al vino bianco e zucchina trombetta, il cannolo di baccalà mantecato alla brandacujun, la cui pasta viene preparata stracuocendo e friggendo le candele ereditate dalla precedente gestione, fino a ottenete un involucro leggero e asciutto.
Fra gli antipasti gli spuncia, minuscoli calamaretti fritti in una miscela di farina di mais, Maizena e farina primitiva alla crusca, serviti con salsa tartara, rucola selvatica e cicoria; soprattutto, visto che gran parte della clientela è francese, l’insalata di foie gras, che sviluppa una futuribile intuizione di Pina, già ripresa da Palluda: il foie gras servito praticamente crudo, prima marinato con pepe e Cognac, poi affumicato a freddo con legno di cedro, accompagnato ai carciofi. Viene servito da Marmo a fettine su una macedonia di piccoli frutti rossi la cui acidità è enfatizzata dalla vinaigrette alla crème de cassis, più foglie di barbabietola rossa, carota e spinacino.
I totani formano un primo in due tempi: i corpi serviti con gli gnocchi; i tentacoli abbattuti, sminuzzati e cotti a ragoût su una crema di riso, lessato e frullato, montato all’olio e al parmigiano, che ricorda le sperimentazioni di Baronetto. Cosicché il risotto è invertito fra il condimento, che imita sotto i denti i chicchi, e il condito, cioè la salsa amidacea sottostante, con un ricordo di Piemonte. Ma ci sono anche ottimi spaghettoni ai ricci locali, aromatizzati al rosmarino per la nota territoriale e il balsamico sullo scoglio, che con le briciole croccanti e acidule in superficie ricrea una sensazione di focaccia.
I gamberi viola, crudi o appena planchati, sono serviti al momento con gli ovoli crudi e un goccio di citronette; ma c’è anche il pesce “quotidiano”, trattato a meraviglia. Per esempio il besugo, o pezzogna, deliscato, ricomposto, scottato un minuto per lato sulla plancha con timo e rosmarino, al riparo della carta da forno, in modo che l’interno si mantenga traslucido, poi guarnito di lamelle di verdure stagionali condite con una leggera citronette e ovuli: la parola alla materia.
Al predessert di stagione, a base di frutta, segue la felice rilettura di una specialità della Costa Azzurra, su suggerimento di Franco e Rita: la tarte au citron. Viene servita scomposta, con un crumble di sbrisolona alla farina di mais e poche mandorle, il succo di limone addensato in marmellata, la polpa pelata al vivo e macerata al glucosio, la crema pasticcera alla scorza, che profuma anche il gelato di fior di latte, cardamomo e coriandolo, la meringa fiammeggiata, in un saliscendi di acidità che trascina sul roller coaster il palato.
Ristorante Balzi Rossi
Via Balzi Rossi, 2 – 18039 Ventimiglia (IM)
Tel. 0184 38132