Leggevo, qualche giorno fa, un bellissimo articolo dell’enologo Umberto Trombelli che mi ha fatto molto riflettere ed ha rafforzato le mie personali convinzioni.
Si dissertava sul proliferare dei produttori di vini cosiddetti “naturali” (e spiegherò più avanti perché metto questo vocabolo tra virgolette), e sul fatto che, molti di loro, non riconoscono i difetti dei loro vini per quello che sono, ma vedono nei difetti organolettici un simbolo distintivo della loro “naturalità” e della loro territorialità, mentre aborrono l’uso di coadiuvanti e additivi che, a loro avviso, alterano l’originalità di un vino ed il suo legame col territorio.
Sono ancora molti i fenomeni relativi alla fermentazione ed alla conservazione dei vini che a tutt’oggi la scienza non riesce a spiegare, ma com’è possibile che, per il solo gusto di andare contro corrente e, aggiungo, con scarse competenze tecniche, molti sostenitori dei cosiddetti “vini naturali” esaltino i difetti o, addirittura, li mostrino come un raro pregio, solo per poter dire che hanno… “scoperto” i nuovi astri nascenti della produzione enologica?!
Tra i difetti principali e più evidenti di molti vini “naturali” si evidenzia lo sgradevole odore di “ridotto” – che si ha quando un vino rilascia sentori di uovo marcio, gomma bruciata, cerino o cavolo cotto – situazione dovuta principalmente alla presenza di composti solforati di varia origine; altro problema è l’eccessiva ossidazione che accentua il sapore di “marsalato”, e ancora l’alta percentuale di acidità volatile (ovvero la presenza eccessiva di acido acetico) ecc.
Il difetto, in quanto tale, (dal dizionario della lingua italiana = mancata compiutezza, imperfezione più o meno accentuata e rilevabile dal punto di vista oggettivo o soggettivo) come dice un altro famoso enologo, è identificabile comunque e dovunque, perciò, oltre ad essere mortificante e dannoso, diviene anche un carattere omologante e non potrà mai essere distintivo di un vino e tantomeno di un territorio.
La vera differenza, il vero PLUS, è dato dall’uva prodotta in un territorio particolarmente vocato che, assieme all’esposizione del vigneto, alla sua latitudine, all’approvvigonamento idrico, all’isolazione, all’esperienza del vinificatore, ecc. (insomma a tutto ciò che i Francesi chiamano Terroir) aggiungono qualità e unicità.
Il vitigno autoctono è un ulteriore plus, ma solo se ben selezionato. Usare lieviti selezionati, veloci e sicuri attivatori della fermentazione, batteri malolattici, solfiti in modica e controllata quantità, o anche le barrique per affinare, illimpidire e stabilizzare naturalmente il vino, non vuol necessariamente dire sofisticare il vino. Queste tecniche, ricercate e perfezionate nei secoli, si usano da sempre per migliorare e rendere più gradevole e longevo il vino”.
Dice ancora Trombelli nel suo articolo (che mi sono permesso di concentrare): … Negli anni sono stati divinizzati vini che un produttore imbottigliava senza nessun controllo, così che ti capitavano prodotti che avevano fatto malolattica in bottiglia, o erano rifermentati per qualche residuo zuccherino mal considerato: guai ad avanzare qualche critica, perché eri segnato come barbaro e ignorante; paradosso dei paradossi”.
E allora iniziamo col dire, ed ecco perché ho virgolettato sopra le parole “vini naturali”, che il vino in “natura” non esiste. Già nel 1807 Chaptal scriveva: “La natura lascia marcire le uve in pianta, mentre l’arte ne converte il succo in vino”.
I cosiddetti “vini naturali”, anche storicamente, non sono mai esistiti.
Gli antichi Greci e Romani, cuocevano il mosto, lo concentravano, lo salavano, l’aromatizzavano e tutto per aumentarne e preservarne la conservazione. Ogni artifizio era buono per evitare che il vino divenisse aceto.
La vigna produce uva e, all’interno dei suoi acini, i semi per la perpetuazione della propria specie, che, come per ogni altro essere vivente, è la sua priorità, questa sì “naturale”.
La vigna non produce vino; il succo degli acini si ha solo per un brevissimo periodo nell’arco della bio-degradazione degli stessi e non c’entra nulla con la vinificazione; il vino è ricercato e voluto dall’uomo, quindi è prodotto e regolato esclusivamente grazie al suo intervento. Colui che nega la preminenza dell’uomo non può che avere una visione esteriore e superficiale della vinificazione o, ancor di più, ignora la verità. Si potrebbe persino giungere a dire che fare vino senza arrivare all’acetificazione è un’operazione “contro natura”.
Il vino, comunque la si pensi, dovrebbe quindi essere appetibile, piacevole da vedere e da bere e questo è l’obiettivo dell’enologia moderna: operare in modo razionale, in maniera preventiva, più ragionata al fine di ottenere un prodotto sano e godibile.
Uno degli argomenti principali sostenuti dai paladini della “naturalità” è quello dell’uso dei lieviti “spontanei”.
Molti di questi microorganismi vivono in quiescenza nelle cantine, e non nei vigneti, per poi propagarsi durante tutto l’arco della vendemmia e risvegliarsi a contatto del mosto; dopo di che, in buona parte, tornano a rifugiarsi nelle cantine per diventare di nuovo dormienti.
La maggior parte di essi, quindi, si sviluppa nei primi stadi della fermentazione per poi sparire, a causa della scarsa resistenza all’alcol, lasciando spazio ai saccharomyces, che finiscono per dominare la scena, infatti, se qualcuno facesse delle indagini genetiche sui ceppi considerati “indigeni”, scoprirebbe che molti di quegli stessi lieviti si trovano anche normalmente in commercio, poiché troverebbe dei comuni Saccharomyces Cerevisiae, con la brutta sorpresa di rinvenire, assieme a questi ultimi, anche colture di lieviti apiculati, assai “pericolosi” che, in certe situazioni ambientali, non mangiano solo zuccheri, e questo è un problema, poiché da queste fagocitazioni nel vino producono, al 90%, gravi difetti, inoltre tendono a uniformare i vini, coprendo i caratteri distintivi dell’uva e del terroir.
Spesso ciò che i fautori della “fermentazione naturale” chiamano “gusto di terroir” si riduce, in realtà, ad un melange di alcoli superiori, acetati e odori fenolici prodotti da questi lieviti non-saccharomyces, e fatalmente, i vini prodotti in questo modo si assomigliano, quale che sia il loro terroir di provenienza.
Per contro l’impiego di lieviti selezionati garantisce un rapido avviamento della fermentazione, e consente di limitare l’uso di solfiti senza rischiare l’ossidazione precoce dei mosti. Tra l’altro, l’aggiunta preponderante di ceppi selezionati, soprattutto se neutri, non causa deviazioni organolettiche e non intacca il carattere del vitigno: li rende sì dominanti, ma i microrganismi indigeni presenti non vengono affatto eliminati, e continueranno a svolgere il loro ruolo, finché le condizioni del mosto lo permetteranno.
Parlando infine dei solfiti, l’enologo dr. Trombelli conclude: … “Certo si possono produrre vini anche senza l’uso di solfiti, ma con un risultato qualitativo privo di personalità: per un effetto ossidativo, i profumi si perdono, rendendo i vini insignificanti rispetto ai tradizionali”.
E’ assodato che, a tutt’oggi, non esiste una tecnica altrettanto valida, atta a produrre vini importanti e adatti a un lungo invecchiamento, senza l’uso di questo additivo che serve a conservare le qualità originali dell’alimento, è uno stabilizzante e infine è antisettico, inibisce cioè il proliferare di batteri potenzialmente dannosi; le uniche alternative sarebbero quelle di usare altri additivi, ad esempio quantità “industriali” di tannini, oppure agire sulla temperatura in determinate fasi del processo produttivo, ma queste pratiche non sono meno impattanti dell’utilizzo dei solfiti.
Una temperatura più alta, ad esempio, può simulare un fenomeno di pastorizzazione e, per un alimento come il vino, non è affatto consigliabile, poiché il calore eccessivo ne degraderebbe la parte aromatica.
Indubbiamente i solfiti aggiunti, se usati in modo improprio, sono fastidiosi e addirittura tossici, ma se usati nelle giuste e mirate quantità, non arrecano tutto il fastidio di cui si sente vociferare; inoltre, nel tempo, hanno subito continui ritocchi al ribasso mano a mano che è cresciuta l’esperienza enologica.
Personalmente, per concludere, preferisco bere vini ben fatti, senza difetti e puzzette, che se “dimentico” in cantina per qualche tempo non mi facciano scherzi. Credo che su un certo tipo di mercato si possano trovare prodotti di questo tipo anche a prezzi non esosi perché, oltretutto, l’enologia moderna ha, da tempo, migliorato di brutto le sue conoscenze ed ha già buttato più di un occhio anche alla salvaguardia della salute dei consumatori.