Theobroma, Arleo, El Cencio, El Nane, Cormì, Rubeo, Reoltre: sulla fantasia dei nomi nessuna obiezione, ci sono quelli che hanno scoperchiato la scatola dei ricordi di famiglia e quelli che invece hanno provato a giocare con le parole. Tutti, invece, hanno giocato con uve e vitigni, pur vivendo e lavorando in un territorio, la Valpolicella, che col solo magistero della sua tradizione dovrebbe garantire affari e visibilità a prescindere. È però un fatto che nella terra dell’Amarone e del Ripasso molte cantine stanno provando a sondare mondi nuovi e inesplorati, pur partendo sempre da ciò che di buono sanno fare. E così si prendono Corvina, Rondinella, Molinara, i pregiati vitigni che da decenni reggono le sorti dell’economia locale, ma anche Corvinona e Creatina, e li si vinifica insieme a Cabernet o Merlot, ma anche Sangiovese, per dare vita a creature enologiche che del Valpolicella originario conservano qualche traccia ma che per forza di cose si proiettano altrove, spesso purtroppo nell’indifferenza del consumatore. Molti vignaioli, i più tradizionali e affezionati, stanno gridando da tempo allo scandalo, convinti come sono che tali esperimenti non facciano il bene di un brand che, se è riuscito ad affermarsi nel gusto e nel cuore degli appassionati, lo ha fatto perfezionando negli anni procedure e materie prime, senza ricorrere a facili scorciatoie. Il rischio anzi sarebbe, a loro dire, quello di snaturare un prodotto che di invenzioni come queste non ha assolutamente bisogno. La necessità di movimentare un mercato sempre più vittima del marketing e sempre meno attento al rispetto dei più elementari parametri qualitativi, avrebbe però spinto molti ad arricchire la propria offerta commerciale e la propria gamma di produzione con vini che, scimmiottando i loro progenitori, se ne sono allontanati al punto che hanno finito per disperdersi in quella indistinta medietas che caratterizza gli scaffali di negozi e supermercati là dove non è possibile raccogliere in uno spazio unico etichette immediatamente riconoscibili.
Anche se, a dire il vero, un denominatore unico c’è ed è rappresentato dal rispetto della tecnica di produzione, che in quasi nessun vino di quelli messi all’indice dai puristi del Valpolicella si esime dal passaggio sulle cosiddette “arele”. Le uve utilizzate, tutte o alcune di esse a seconda del risultato che si cerca di ottenere, prima di essere lavorate in cantina vengono infatti lasciate appassire, operazione che piacerebbe a molti potesse diventare un vero e proprio marchio di fabbrica del territorio. Ecco perché tale libera proliferazione viene, se non incentivata, sicuramente tollerata a livello centrale. «In realtà si tratta di una scommessa», ha confessato fra il serio e il faceto Andrea Sartori, il presidente del Consorzio del Valpolicella. «Incentivando, o per lo meno non ostacolando, la produzione di vini che alla base costituita da uno o due vitigni tipici del Valpolicella vedono aggiungersi altre uve compatibili si è voluto vedere un po’ l’effetto che fa, ovvero provare a fare della Valpolicella il territorio dell’appassimento per antonomasia». Da qualche anno, in effetti, in molte zone del nostro Paese, ma non solo, produttori particolarmente attivi stanno provando a realizzare vini che nascano dalla spremitura di uve appassite naturalmente sulla pianta o successivamente in cantina. Una procedura che per decenni ha fatto la fortuna dell’Amarone, il principe dei vini nati dall’appassimento delle uve. «Si tratterebbe del tentativo di arginare una concorrenza che si sta facendo di anno in anno sempre più pericolosa – ha aggiunto Sartori – e al tempo stesso di potenziare la prerogativa più qualificante del nostro territorio. Nessuno qui ha intenzione di cannibalizzare né l’Amarone, figurarsi, né tanto meno il Ripasso, che dal lavoro di appassimento riceve benefici espliciti anche se non diretti». D’altronde sarebbe una follia, considerato il boom di vendite degli ultimi anni. «È la dimostrazione che questi vini non hanno minimamente intaccato il mercato principale: ricordo che nel 2017 l’Amarone e il Ripasso hanno fatto registrare un +5% nelle vendite e ancor meglio è andata al Valpolicella con un +7%. Ciò significa che chi ha acquistato i vini di cui stiamo parlando non lo ha fatto a discapito di quelli tradizionali». Dati che fortificano i presupposti teorici del progetto: «Ciò a cui vogliamo puntare – ha ammesso Sartori – è il primato di una esperienza esclusiva. Non è un caso che su tutte le etichette dei vini nati in Valpolicella al di fuori delle prerogative del disciplinare della denominazione sia stato dato spazio più al metodo che ai varietali. Chi acquista una bottiglia di questi vini deve essere attirato, oltre che dal nome dell’azienda, dal sistema di produzione, ovvero l’appassimento. In più di una riunione si è parlato dell’opportunità di creare a questo proposito una vera e propria categoria di vini, ovviamente targati Valpolicella». L’idea che regola il fenomeno e in un certo senso lo giustifica è quella di elaborare un perimetro normativo e dunque produttivo che possa fare della Valpolicella la terra eletta per questo tipo di lavorazione. «Al momento non abbiamo ancora pensato a nessun disciplinare né tanto meno ad una possibile nuova denominazione, ma ora come ora non mi sento di escludere alcun tipo di iniziativa in tal senso, anche se siamo consapevoli delle difficoltà dell’operazione». Tuttavia si vuole fare sul serio, al punto che la Regione Veneto pare sia intenzionata ad attivare le procedure per il riconoscimento da parte dell’Unesco dell’appassimento come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Un pronunciamento in tal senso modificherebbe in modo radicale l’intera questione, attribuendo di fatto alla sola Valpolicella la paternità di una tecnica che, pur avendo nell’Amarone un inarrivabile punto di riferimento, non è tuttavia protetta da alcuna difesa normativa. Oggi chiunque in qualunque parte del globo può permettersi di produrre vini con uve appassite, ma il giorno in cui l’Unesco riconoscesse alla provincia di Verona questa specificità sarebbe difficile per tutti provare a sfondare in un campo più che protetto. «È per questo che dobbiamo muoverci in tal senso. E lo dice uno che personalmente su questo progetto non ha investito ancora molto. La mia azienda ha prodotto solo poche bottiglie in appassimento e nessuna di esse è venduta in Italia. Oggi ci limitiamo ad alcune aree test in Germania, Stati Uniti e Asia». Se i risultati saranno confortanti e se i produttori saranno compatti nel portare avanti l’iniziativa, è possibile che la Valpolicella possa conoscere un interessante rinascimento enologico. Una novità che affonda inevitabilmente le sue radici in una tradizione impossibile da disconoscere.