
Nel libro “La Romagna nel Bicchiere”, che ho scritto con Andrea Spada agli inizi del nuovo millennio, parlavo di un rinascimento dei vini romagnoli che ha fatto crescere una nuova generazione di produttori, più aperti ai cambiamenti che, con il contributo e l’esperienza dei migliori enologi italiani, soprattutto toscani, hanno creato vini totalmente rinnovati rispetto al passato, con una nuova materia, un nuovo linguaggio, uno stile e un gusto che si traducono, in molti casi, di profumi e sapori di inedita bellezza e profondità.
Dal vitigno sangiovese piantato in terreni collinari dove le rese per ettaro sono sempre più scarse rispetto al piano e il lavoro in vigna richiede fatica e sacrifici, sono nate anche in aree meno famose (Modigliana, Covignano – Coriano) una serie di etichette di grosso spessore in cui è evidente l’acquisizione generale di nuove tecniche di vinificazione tese ad esprimere la territorialità con un gusto di modernità nel vino attraverso la freschezza, la pulizia e lo spessore del frutto.
E allora perché i migliori sangiovesi non ottengono quei consensi di critica e di mercato che meritano?
Perché non hanno il successo e il prestigio dei vini toscani ottenuti con le stesse uve, la stessa tecnica, persino le stesse mani del winemaker ?
G.B. Sono domande che mi sento porre da sempre. E la risposta è sempre quella. Forse il problema non è il vino in sé ma nel nome che si porta addosso. Purtroppo nel nome Sangiovese c’è di tutto: troppe denominazioni, troppe sigle, e troppe le regioni di appartenenza, troppi i vini modesti che hanno creato un’immagine negativa che penalizza le migliori etichette.
Mi rendo conto che non è facile cambiare l’identità di un vino legato alla memoria storica della sua regione.
Ma sono altresì convinto che per valorizzare le eccellenze occorre puntare sulle diversità, investire sul proprio nome (il brand dell’azienda) e meglio ancora sul nome della località a maggiore vocazione vinicola.
Nessun grande vino, sia rosso sia bianco, ad eccezione di alcuni Gewurztraminer alsaziani con vendemmia tardiva e i grandi Riesling della Mosella, portano in etichetta il nome del vitigno.
Secondo la sua opinione, un grande vino è…
G.B. Il russo – americano Andrè Tchelistcheff, il principe degli enologi, il mito che ha cambiato i vini del mondo inventando lo stile dei migliori vini della California (e in Napa Valley gli hanno dedicato un monumento), Chateaux bordolesi, il Masseto e l’Ornellaia e tanti altri ancora, diceva che un grande vino “è il risultato di una equazione che coniuga e contempla ad un tempo eleganza, equilibrio, morbidezza, consistenza e complessità”.
Un vino che deve viaggiare nel tempo con eleganza e distinzione.
Nomen Omen: è così anche per il Sangiovese?
G.B. Dicevano gli antichi romani che “il nostro destino è nel nome, il nome è un presagio”. Per i vini, i migliori vini, il nome è anche un concetto di valori e di intelligenti strategie di marketing e comunicazioni.
Abbinati ad etichette di forte impegno emotivo, incrementano i risultati commerciali per non parlare poi della soddisfazione di aver creato un marchio che promette qualità, spessore, unicità e quindi eccellenza.
Conosco vignaiuoli storici ed altri emergenti che producono ottimi Sangiovesi in purezza o con l’apporto di uve internazionali che non hanno nulla da invidiare ai blasonati vini toscani.
Sono loro, devono essere loro, i primi a credere nei loro vini ed avere il coraggio e l’orgoglio di imporre il proprio marchio e non chiamarlo più Sangiovese, come hanno fatto altri con successo.
Chi, per esempio?
G.B. La Toscana, che divide con la Romagna la primogenitura del vitigno sangiovese, ha chiamato i suoi migliori vini con il nome della località di provenienza: Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano, Morellino di Scansano, Carmignano e quello delle varie zone del Chianti.
I vignaioli delle Langhe (come quelli della Valtellina) vivono in simbiosi con il Nebbiolo ed hanno creato grandissimi vini che si fregiano del nome di piccoli paesi a spiccata vocazione vinicola conosciuti in tutto il mondo: Barolo e Barbaresco nelle Langhe, Gattinara nel Vercellese, Ghemme nel Novarese, Sizzano nel Biellese, Sassella, Grumello e Valgella in Valtellina (Lombardia).
Anche i grandi Chateaux bordolesi ottenuti da uve cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot e la Borgogna con soli due tipi di uve, pinot nero e chardonnay, producono i più grandi e i più costosi vini bianchi e rossi del mondo col nome della proprietà o del terroir (vigneto).
C’è un’altra “categoria” di vini nata agli inizi degli anni ’70 che alcuni produttori del Chianti hanno scelto puntando sul proprio nome o su quello del vigneto di proprietà a discapito della Denominazione di Origine (DOC).
Il vino che ha rivoluzionato il mercato e ha creato le basi di una moderna enologia è stato il TIGNANELLO (dal nome del podere Tignanello) nel 1971, un Sangiovese nato in purezza della famiglia Antinori.
Altri lo hanno seguito e sono nati vini con uve di sangiovese che hanno conquistato mercati internazionali : Percarlo, Flaccianello, Cepparello, Pergole Torte, Fontalloro, tanto per citarne alcuni.
Per non parlare poi di straordinari vini a base di cabernet sauvignon come il Sassicaia del Marchese Incisa della Rocchetta, il Solaia della famiglia Antinori, l’Ornellaia e il Masseto (merlot) della famiglia Frescobaldi.
Tutti questi vini portavano in etichetta “vino da tavola” (oggi sono IGT o DOP) e gli americani per distinzione e merito, li hanno chiamati Supertuscan.
Purtroppo in Romagna e in altre regioni d’Italia, si è privilegiato il nome del vitigno in etichetta come elemento distintivo della produzione enologica ed è stato un gravissimo errore.
Il vitigno sangiovese, a differenza del nebbiolo che è uno dei vitigni meno coltivati al mondo, è il più diffuso e il più coltivato in Italia con oltre 70.000 ettari dei quali il 10% in Romagna.
Ne consegue che con il nome Sangiovese in etichetta troviamo decine e decine di denominazioni legate alla regione di provenienza o alla zona: Toscana Sangiovese, Marche Sangiovese, Umbria Sangiovese, Puglia Sangiovese, Abruzzi Sangiovese e Maremma Toscana Sangiovese, Molise Sangiovese e tante altre ancora.
Anche la Romagna, secondo lei, ha troppe denominazioni col nome Sangiovese che confondono le idee e le scelte dei consumatori?
G.B. C’è una marea di Sangiovese in Romagna : dai semplici vini da pasto a vini più o meno impegnativi ad altri ottenuti con orgoglio e giustificate ambizioni.
Spiegatemi come fa il consumatore a districarsi in questa gigantesca Torre di Babele dove tutto ha nome Sangiovese ed ognuno parla una lingua diversa dall’altra.
Il problema quindi non è il vino ma il nome che si porta addosso che fa la differenza.
Un vino, e a maggior ragione un grande vino, non è mai dovuto al caso. Alla sua nascita occorrono vari elementi, il terreno, il clima l’esposizione al sole ed è la localizzazione specifica di un vigneto che fa la differenza.
Bastano a volte poche centinaia di metri e il vino cambia personalità si fa diverso. E’ il mistero, il fascino del vino.
In particolare il sangiovese in purezza tende ad acquistare caratteri distintivi e ben percettibili a seconda delle aree di coltivazione delle uve.
Figuriamoci se da un vigneto d’uva sangiovese disteso su masse ghiaiose cementate a Predappio Alta e a Cusercoli può nascere un vino uguale dal calcare di Bertinoro o dai terreni sabbiosi tra il Forlivese e il Faentino o dalle arenarie e argille di Brisighella e Modigliana.
Per intenderci bene non è un altro Sangiovese, è un altro vino che ha il diritto di chiamarsi col suo nome proprio: la località di provenienza.
La Romagna ha scelto di legare il suo nome geografico a quello del sangiovese col risultato che con quel nome sono piovuti sul mercato rivoli di ottimi vini e fiumi di vini mediocri, privi di personalità. E sono stati proprio questi ultimi che hanno creato un’immagine negativa a tutto il Sangiovese: vino popolare, folcloristico, legato a sagre paesane, piadina e liscio.
E’ la legge della moneta cattiva che scaccia quella buona? Quali le contromisure?
G.B. Dopo la Doc unica Sangiovese di Romagna del 1967 nuove Dop “premiano” oggi le aree collinari della Romagna e all’interno di esse le località a maggiore vocazione vinicola chiamate sottozone.
Perché poi chiamarle sottozone se sono le aree migliori della Romagna?
La Toscana ancora una volta insegna: al vertice il Chianti Classico quindi, inferiori, di minor valore, le Sottozone Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Rufina.)
(La zona del Chianti Classico fu delimitata addirittura nel 1716 con un editto del granduca Cosimo III De’ Medici e non si parlava di sangiovese ma di territorio).
Negli anni ’70 feci uno studio sul Sangiovese di Romagna (Proposte per il Sangiovese di Romagna – 25 novembre 1976), analizzai i pregi e i difetti in un periodo in cui si beveva senza la cultura del bere e l’immagine e la qualità del vino erano molto peggio di oggi. Anche il Sangiovese di Romagna poteva, doveva avere una classificazione che distinguesse qualità e quantità, produzioni commerciali da prodotti di nicchia legati al nome delle aree migliori. Occorreva una svolta, scommettere e puntare sulla qualità per distinguerla nettamente dalla quantità, altri lo facevano mentre cambiava il consumatore sempre più curioso e assetato di conoscenza per le nuove etichette e i nuovi stili del vino italiano.
Le mie proposte prendevano esempio dalla storia e dall’esperienza dei cugini francesi i quali dal più semplice dei loro vini, il Beaujolais ai grandissimi Chateaux bordolesi con la classificazione del 1855 – ancora oggi attualissima – hanno creato la piramide della qualità. Alla base la denominazione più vasta che abbraccia tutto il territorio, a metà le aree comunali, al vertice il meglio del meglio, il cru con il nome della proprietà o del vigneto.
Parte delle mie proposte oggi fanno parte integrante della nuova piramide dei vini di Romagna: alla base Romagna Sangiovese, a metà Colli di …. , al vertice Sottozona di ….
Fatte allora (40 anni fa) avrebbero facilitato e orientato meglio le scelte del consumatore, avrebbero dato dignità e il giusto rilievo ai vini migliori delle località storiche della Romagna perché solo i grandi vini sono trascinamento, bandiera, riferimento esemplare, conoscenza, espansione dei valori del territorio, sono qualità che portano dietro altre qualità e sono l’antiglobalizzazione per eccellenza perché la loro forza sta nell’orgoglio della diversità per eleganza, prestigio e personalità.
Oggi il consumatore, culturalmente più evoluto, non chiederebbe un Romagna Sangiovese Sottozona di Bertinoro o Predappio ma semplicemente un Bertinoro o un Predappio, così come chiede un Barolo o un Barbaresco. E il nome di questi vini non sarebbe replicabile da nessuna parte d’Italia e del mondo.