Il numero di vitigni autoctoni della Campania salvati dall’oblio è impressionante: un affascinante ginepraio dove perdersi per poi (forse) ritrovarsi. Dal casertano: Coda di Pecora, Asprinio, Pallagrello Nero e Bianco e Casavecchia. Dal beneventano: Coda di Volpe e Moscato di Baselice. Dall’Irpinia: Grecomusc’ e Sirica. Da Ischia: Arilla e Forastera. Da Napoli e Salerno? Tutto nella seconda parte!
La Campania, ancor più della Toscana, è un vero scrigno di biodiversità ampelografiche, tanto da imporre una sua trattazione in due parti. In ogni angolo della regione, dal Casertano al Salernitano, senza dimenticare Ischia e la Costiera Amalfitana, ci si imbatte in una infinità di vitigni da uscirne quasi smarriti, se non sgomenti. Tra cultivar autoctone, vitigni incrociatisi spontaneamente nei secoli, uve ancora da identificare a livello di DNA, bacche da certificare per una successiva registrazione ufficiale, sinonimi dialettali, parlare di varietà reliquia campane in fase di rilancio è costato uno scrupoloso lavoro di ricerca, non scevro di potenziali imprecisioni e – figuriamoci! – senza la pretesa di esaustività della trattazione. Si è provato a farlo, nella speranza di offrire quanto meno un dignitoso affresco di quello che è il patrimonio viticolo di questa fantastica regione.
Dalla rara Arilla, quel grande passito che mancava
“Abbiamo cominciato a vinificare l’Epomeo Igt Bianco Passito Gocce D’Ambra, a base di uva Arilla, 10 anni fa”, precisa Andrea D’Ambra di Casa D’Ambra di Forio d’Ischia, intenzionati a produrre quel grande passito che mancava sull’isola. “L’Arilla viene identificata ufficialmente da mio padre Salvatore attraverso una comunicazione all’Accademia Italiana della Vite e del Vino nel 1962, dove la descrive da un punto di vista ampelografico, individuando due sinonimi: Rille e Agrilla”.
Pur se si hanno sue notizie frammentarie dal 1867, quando il Dascia, uno storico ischitano, la cita nella sua Storia dell’Isola d’Ischia.
Di probabile origini siciliane, è oggi coltivata a sud dell’isola; sul versante nord è sconosciuta.
Punto di forza di questa cultivar è la sua acidità e la resistenza degli acini alle muffe grigie: ottimo viatico per adattarsi all’appassimento; anche perché se vinificata per ottenere vini freschi e secchi, questi ultimi risultano tannici. Dai profumi di albicocca, datteri, erbe officinali e miele di castagno, ha gusto di grande armonia dolce/acida.
Asprinio d’Aversa: le bollicine sono la morte sua
Masseria Campito di Gricignano di Aversa (Ce) ha fatto dell’Asprinio il suo cavallo di battaglia, declinato in versione ferma, spumante metodo classico e metodo Martinotti (l’Asprinio di Aversa Doc Spumante Brut Drengot). “La scelta di produrre due bollicine – chiariscono patron Lorenzo Di Martino e il suo enologo Francesco Martusciello – rispecchia la vocazione di questo vitigno alla spumantizzazione, dovuta alla sua innata acidità. Noi si voleva ridare dignità a questa cultivar, impiegando tecniche adeguate ai tempi, così da renderla all’altezza dei più blasonati bianchi campani; sfida che stiamo vincendo”. L’Asprinio è conosciuto per la sua storica forma di allevamento ad alberata, che i Di Martino hanno voluto conservare assieme a una nuova vigna a spalliera, più gestibile; il tutto conservando il patrimonio organolettico di questo antico vitigno aversano. Proprio con il Drengot i tratti di quest’ultimo si offrono più fedelmente: dopo 3 mesi di sosta sur lies in autoclave, il risultato è una bollicina dai sentori di lime e frutta tropicale; al palato si avverte una notevole freschezza, una bella cremosità e succosità, per una grande bevibilità.
Casavecchia, dal Trebulanum alla Doc di Pontelatone
“Il termine “archeologia vitivinicola” è ben riferibile al Casavecchia – sottolinea Amedeo Barletta di Vestini Campagnano di Caiazzo (Ce) – in quanto secondo alcuni esso potrebbe essere il vitigno dal quale gli antichi romani ottenevano il famoso Trebulanum, tra i pregiati nettari della Campania Felix. L’unica certezza è che il suo ritrovamento e la sua prima vinificazione, con uve tratte da un ceppo ritrovato ai principi del XX secolo presso un rudere romano, fu dovuta a un contadino di Pontelatone”. Tale vitigno si diffuse subito in zona, traducendosi in un vino ossimorico: potente e beverino. Tra gli indigeni si diffuse il concetto che per avere un buon nettare bisognava vendemmiare l’uva della “casa vecchia” (il rudere). Da qui il nome della bacca, coltivata in un preciso areale oggi pertinente alla Doc Casavecchia di Pontelatone. Il Casavecchia di Vestini Campagnano, dopo un iniziale scetticismo verso la qualità di quest’uva smentito dai fatti, affina per almeno 16 mesi in barrique (che ricorda i “caratelli” campani); ne scaturisce un nettare originale, potente al naso, dalla texture tannica serrata, con sentori di spezie orientali e more.
Coda di Pecora, in via di riconoscimento ufficiale
Il Verro nasce nel 2003 con l’acquisto di un terreno a Formicola (Ce) di 14 ettari, di cui 4 vitati su terreni ricchi di lava, esposti a sud sud-est. “Negli anni – racconta patron Cesare Avenia – un nostro vigneto ha cominciato a incuriosirci. Pensando fosse Coda di Volpe, le analisi hanno smentito tale convinzione, venendo poi a sapere dai contadini locali che ci eravamo imbattuti in un’uva detta Coda di Pecora, citata dal Frojo nel 1875 e originaria della Magna Grecia. Per ufficializzare questa scoperta nel 2005 abbiamo eseguito l’esame del DNA atto a certificarne l’autenticità, avviando l’iter – ancora in itinere – per la registrazione del vitigno”. La Coda di Pecora, pur senza perdere di acidità, matura tardivamente rispetto ad altri bianchi campani, con una vendemmia che si svolge tra la prima e la seconda decade di ottobre. Il Terre del Volturno Igt Sheep (2.000 bottiglie all’anno) fermenta in acciaio e affina sur lies sino a maggio. L’originale bouquet presenta sentori di mela annurca, ginestra e menta; il sorso è sapido, fresco e dal lungo finale fedele al naso.
Coda di Volpe, vitigno minore? Solo per diffusione!
“Tengo molto a questo vino. Quando iniziai a vinificare la Coda di Volpe Bianca in purezza, vitigno ‘minore’ solo per diffusione’, solo altre tre-quattro cantine la producevano”, chiosa con fierezza Paolo Cotroneo, patron di Fattoria La Rivolta di Torrecuso (Bn).
Originaria della Campania, con riferimenti storici che risalgono agli scritti di Plinio il Vecchio, deve il suo nome alla particolare forma del grappolo.
Sebbene coltivata in quasi tutta la regione, si esalta in Irpinia, ai piedi del Vesuvio e nel Beneventano (Sannio e Taburno).
Dal grappolo molto grande, lungo sino a 40 cm, ha viceversa bacche di piccole dimensioni dalla buccia particolarmente pruinosa.
Vinificata in acciaio a bassa temperatura, previa criomacerazione, il tutto per esaltarne freschezza e fragranza, il Sannio Doc Taburno Coda di Volpe di Fattoria La Rivolta offre sentori agrumati e leggermente speziati, con un sorso sorso armonico, sapido e minerale, dotato di buona polpa.
Grecomusc’, moscio d’aspetto ma vulcanico al sorso
Cantine Lonardo di Taurasi (Av) ha riscoperto alcuni anni fa un vitigno che si credeva quasi perduto, il Grecomusc’, citato in alcuni testi ampelografici del 1875 come Rovello Banco.
Vitigno diffuso a macchia di leopardo nel comprensorio, è frutto di vecchi ceppi a piede franco sparsi nei vigneti. Sua singolare caratteristica è di avere una buccia che cresce a dismisura rispetto alla polpa, dando agli acini un aspetto “moscio”, ciò per la scarsa disponibilità di acqua nel periodo di maggior accrescimento delle bacche. Tutto ciò rende molto bassa la sua resa in vino.
I Lonardo, titolari dell’azienda, dopo anni di sperimentazione sono riusciti a trarre vantaggio da questa caratteristica, producendo un vino unico e inconfondibile.
La fermentazione alcolica parte grazie a lieviti selezionati in vigna, mentre la malolattica è spontanea; il nettare matura in acciaio per 11 mesi sulle proprie fecce fini e imbottigliato con una filtrazione blanda. Dai profumi minerali di pietra focaia, ha sorso freschissimo, sapido e strutturato, capace di notevole evoluzione.
Dal raro Moscato di Baselice, un nettare dirompente
“La Campania è una grande produttrice di Vino Santo, rinomato in tutto il mondo – come attestato da numerosi documenti – sin dai primi del Cinquecento”, così Pasquale Clemente patron di Masseria Frattasi di Montesarchio (Bn), tra le pochissime realtà interpreti del raro Moscato di Baselice.
Le vigne, site in Baselice (tenuta Del Vecchio Marsellis), sono allevate ad alberello a 700 m slm; una viticoltura estrema, di montagna, dalle bassissime produzioni per pianta per una eccezionale qualità del frutto. I grappoli, vendemmiati nella seconda decade di settembre, selezionati uno a uno, vengono sottoposti ad appassimento in fruttai all’aperto per 30-60 giorni; dai 40 quintali di uva di partenza, dopo la disidratazione degli acini, pressati sofficemente con torchio manuale, si ottengono solo due barrique (1.000 bottiglie), dove il nettare sosta alcuni mesi per poi maturare adeguatamente in bottiglia.
I profumi sono inebrianti, di albicocca, spezie dolci, tabacco da pipa, la beva è polposa, dolce e calda ma rinfrescata da una grande freschezza acida.
Pallagrello Bianco: gradevole da giovane, sontuoso se maturo
“Prodotti dal 2003 – racconta Manuela Piancastelli di Terre del Principe di Castel Campagnano (Ce) – sia il Terre del Volturno Igt Fontanavigna sia il Le Sèrole nascono da Pallagrello Bianco.
La differenza è nello stile: più agile e immediato il Fontanavigna, venduto nell’annata; più ricco e complesso il Le Sèrole, proposto dopo un anno.
All’inizio la differenza era più evidente in quanto per il Le Sèrole impiegavamo uve da vendemmia tardiva; inoltre la fermentazione avveniva interamente in barrique francesi nuove.
Negli ultimi anni ne abbiamo ritoccato il protocollo enologico: uve meno surmature e fermentazione parte in legno e parte in inox, con un successivo assemblaggio delle due frazioni, seguito da una sosta in acciaio sur lies di 6 mesi e una maturazione in bottiglia di altri 8 mesi”.
Il Pallagrello Bianco svetta per i suoi profumi balsamici e agrumati, di ananas e albicocca; in bocca entra morbido, poi si fa fresco, sapido e minerale, grazie a suoli in prevalenza vulcanici.
Un’ uva di grande personalità, pur se di nicchia vista la scarsa quantità disponibile.
Pallagrello Nero, un vino nordico che sa di Mediterraneo
L’azienda Nanni Copè nasce dalla passione di Giovanni Ascione e dal suo incontro con un vigneto di Castel Campagnano (Ce): Vigna Sopra il Bosco. Da qui origina l’etichetta che ha rappresentato l’intera produzione aziendale dei primi anni, il Terre del Volturno Igt Sabbie di Sopra il Bosco.
“Vino-manifesto, teso a trasmettere un’idea di essenzialità, rigore, ma al tempo stesso calore e trasporto. Dai tratti molto più settentrionali della sua latitudine, per quanto di animo affatto mediterraneo”, così Ascione.
Il cru si estende su 2,5 ha, esposto a nord-ovest, con piante ultra trentenni.
Protagonista è il Pallagrello Nero; bacca tardiva, austera, dalla buccia spessa, ma dai tannini vellutati, che genera vini molto personali.
Come da tradizione, tra i filari si trova anche un 5% di Aglianico, che infonde struttura e acidità; completa il quadro un tocco di Casavecchia.
L’uva viene selezionata grappolo per grappolo e vinificata in uvaggio.
La macerazione dura almeno 15 giorni; la malolattica avviene in tonneau, dove il vino affina per un anno prima di maturare altri 8 mesi in vetro.
Sirica, un tuffo nel passato per capire il presente
“La riscoperta della Sirica nella zona di Taurasi, grazie agli studi condotti da Attilio Scienza dell’Università di Milano, è stato per noi – dice Antonio Capaldo, presidente di Feudi di San Gregorio di Sorbo Serpico (Av) – motivo di grande emozione e orgoglio.
Emozione nel riscoprire un vitigno dalle origini così antiche, che offre nuove interpretazioni sulla storia delle nostre cultivar, e orgoglio nella conferma dell’inestimabile valore del territorio irpino.
Conservare esemplari di piante così arcaiche concorre a mantenere vivo il patrimonio storico-ampelografico italiano e la biodiversità del nostro terroir: per questo abbiamo scelto di intensificare la produzione con nuovi impianti e vinificare la Sirica in purezza”.
Abbastanza affine geneticamente a Teroldego, Lagrein e Refosco, l’analisi di alcuni suoi ceppi presenti sull’altopiano vulcanico di Taurasi, vecchi 150 anni e franchi di piede, ha dimostrato che questi ultimi sono degli incroci naturali di Aglianico e Syrah. Dai sentori di frutti rossi, appena vegetali, ha palato fresco e speziato, morbido e persistente.
Da vigne “eroiche”, un bianco raro e delicato
“La nostra esperienza di vinificazione con il Forastera in purezza inizia nel 2011”, così Pasquale Cenatiempo dell’omonima cantina di Ischia.
“Nel 2010 ci viene proposto di subentrare nella conduzione di un vigneto di Lacco Ameno: sfida che raccogliamo con entusiasmo, trattandosi di un appezzamento ‘eroico’, irregolarmente terrazzato seguendo la naturale curvatura delle colline che impone una lavorazione completamente manuale”.
Da qui Cenatiempo vendemmia le uve alla base del suo Ischia Doc Forastera. Un vino raro (4.000 bottiglie l’anno), molto apprezzato dal pubblico. Il suolo vulcanico permette alle radici delle vecchie viti di scendere in profondità, consentendo alla pianta di sopportare condizioni estreme: annate siccitose e brezze marine che impediscono una vegetazione eccessiva, determinando una bassa produzione per ceppo che contribuisce a esaltare le caratteristiche di freschezza e finezza del vino che se ne ottiene, dagli aromi delicati di fiori bianchi, di calibrata struttura e acidità, che si presta a una vinificazione in acciaio atta a esaltarne i tratti.
[Questo articolo è tratto dal numero di settembre-ottobre 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]