Un vecchio tabù enoico, tutto italiano, sta finalmente cadendo. Anche da noi finalmente si comincia ad apprezzare il fascino di certi bianchi nazionali ultra decennali. Forse il primo a crederci – fine anni ’50! – fu il grande Stocker, direttore della Cantina di Terlano.
Poi il buio per decenni, salvo rarissime eccezioni.
Ma dagli anni ’90 è iniziata una rivoluzione e questi sono alcuni dei suoi protagonisti.
[Questo articolo è un estratto da La Madia Travelfood n°350 – Luglio/Agosto 2021. Puoi cliccare qui per acquistare una copia digitale della rivista e qui per quella cartacea.]
Se si va a leggere qualche manuale di degustazione un po’ datato, oppure si è assistito – anche fino a pochi anni fa – a corsi a tema enologico, c’è da rabbrividire di fronte alla scarsa considerazione che veniva riservata ai vini bianchi. Con dogmatica sicumera, si sentenziava l’applicazione di alcuni parametri che tutti i bianchi avrebbero dovuto rispettare.
Regole assurde, che poi il legislatore avrebbe ottusamente recepito, almeno per un certo tempo, salvo quindi parzialmente ravvedersi, ma imbrigliando per anni i disciplinari di tante Doc, e costringendo non pochi tra i migliori produttori a fuoriuscire dal calderone delle denominazioni di origine, talvolta solo per polemica, ma talaltra anche per ragioni tecniche.
Il periodo oscuro dei vini bianco-carta, tutto fiori e frutta fresca
Sia come sia, fra gli anni Ottanta e Novanta, quali erano i tratti che dovevano possedere i vini bianchi, secondo i “soloni del gusto”, per essere meritevoli di considerazione?
Il colore doveva essere bianco carta, al massimo paglierino pallido, tonalità più decise avrebbero significato un inizio di ossidazione (sic!).
I profumi rigorosamente primari: fiori e frutta. Già note speziate erano viste con sospetto, sentori anche solo lontanamente di rovere venivano penalizzati.
Non parliamo poi dei ricordi terziari: odori fumé, minerali, di frutta secca o candita…, erano considerati sintomo di ossidazione incipiente o già in corso.
E in bocca? In linea con quanto sopra, i vini bianchi dovevano essere beverini, snelli, con poca struttura, scarso alcol e acidissimi. Concetti quali calore, morbidezza, armonia erano del tutto sconosciuti, o, peggio, considerati dei gravi difetti.
Passati questi anni oscuri, ed un più breve periodo dove probabilmente si è ecceduto sul versante opposto (profumi sin troppo aggressivi, uso smodato del legno, eccessiva carica alcolica, esagerata morbidezza), oggi possiamo dire che anche i vini bianchi italiani di qualità hanno raggiunto maggiore equilibrio, personalità e maturità. Ed anche una più ampia diversificazione, che prima esisteva solo e a malapena per i vini rossi.
La svolta: anche da noi si cominciano a capire i bianchi longevi
Oggi abbiamo diverse tipologie di vini bianchi capaci di soddisfare una larga fetta di pubblico. Certo, ci sono ancora i bianchi giovani e beverini, ci mancherebbe, che vanno benissimo per certe occasioni di consumo e per una determinata fascia di acquirenti. Ma poi, a fianco di questa categoria, abbiamo i grandi bianchi di orientamento più internazionale, ottenuti con i classici Chardonnay, Sauvignon, Pinot Bianco, elevati in tutto o in parte in legno, strutturati, alcolici e morbidi, capaci di un positivo invecchiamento. Quindi esiste un altro filone, costituito dai vini da vitigni autoctoni, che racchiude due sottocategorie.
Da un lato abbiamo le etichette ottenute grazie al rilancio – da parte di alcuni produttori pionieri e fortemente motivati – di antiche cultivar in via di estinzione. Vengono in mente per esempio vitigni quali Timorasso ed Erbaluce in Piemonte, Pecorino nelle Marche e Abruzzo, Vitovksa e Malvasia Istriana nel Carso. Tutti prodotti capaci di evolvere in positivo per lunghi anni. A fianco di questa categoria, abbiamo poi quei bianchi di territorio, sempre derivanti da uve autoctone, spesso dal glorioso passato, ma che poi per ragioni commerciali sono stati sviliti nel tempo, a causa di produzioni eccessive e frettolose.
Ebbene, oggi questi vini si ripresentano in gran spolvero sul mercato, in modo del tutto rinnovato, capace di riportarli ai fasti di un tempo. Vengono subito in mente denominazioni quali quella del Soave, del Verdicchio dei Castelli di Jesi e di Matelica, della Vernaccia di San Gimignano, del Fiano di Avellino e del Greco di Tufo. Tutti vini che, se ben gestiti in vigna ed in cantina, posso raggiungere una longevità inimmaginabile.
Gli “alternativi”: i biodinamici e gli orange (spesso affinati in anfora)
Infine, un’ultima categoria di bianchi di struttura e da invecchiamento è costituita dai vini di quei produttori che hanno abbracciato filosofie agronomiche e di vinificazione (e di vita) alternative: i biodinamici, gli agricoltori naturali, i fautori dei cosiddetti “vini veri”, che propongono soluzioni apparentemente ardite, ma che altro non sono che un ritorno ad un ancestrale passato, ossia nessun trattamento chimico in vigna, lieviti autoctoni, lunghe macerazioni sulle bucce a contatto con l’aria, non di rado in recipienti “alternativi” come le anfore di terracotta, nessun controllo delle temperature, assenza di solforosa.
I risultati sono ovviamente particolarissimi, fuori da ogni schema di valutazione tradizionale. Vini che, se sottoposti ai soloni di cui sopra, non verrebbero nemmeno considerati tali: ambrati, tannici, alcolici ma con un loro equilibrio, di stile ossidativo, dai profumi terziari molto particolari e anomali, eppure di seducente fascino.
Fatta questa lunga premessa, val la pena entrare nel dettaglio e fare una breve panoramica – solo simbolica, senza nessuna pretesa di esaustività – su quei vini e viticoltori che più si sono battuti per elevare il livello qualitativo dei bianchi italiani e per vincere lo stereotipo del vinello beverino, a vantaggio di un grande prodotto da invecchiamento.
Dagli internazionali agli autoctoni: una (non) esaustiva panoramica
Tra i produttori che si sono distinti con i grandi vitigni internazionali, vanno citati alcuni altoatesini come la Cantina di Terlano (foto 2, 3 e 4), pioniera nella produzione di vini bianchi di lunghissimo corso, grazie alla lungimiranza e caparbietà del suo grande direttore Sebastian Stocker (foto 1), scomparso pochi anni fa; i franciacortini Bellavista e Ca’ del Bosco, la friulana Vie di Romans, ovviamente i bianchi piemontesi di Gaja, le bollicine di Ferrari, gli Chardonnay delle toscane Isole e Olena e Tenute del Cabreo.
Tra i fautori del rilancio di vitigni autoctoni in via di estinzione, in Piemonte, a Monleale (Al) troviamo Walter Massa (foto 5), pasionario del Timorasso. Il suo Costa del Vento, un grandissimo prodotto che ha raggiunto livelli di complessità, equilibrio e longevità impensabili sino a qualche anno fa, di stile quasi borgognone, è ormai considerato uno dei grandi bianchi del mondo.
Sempre in Piemonte, grazie a Orsolani di San Giorgio Canavese (To), l’Erbaluce di Caluso sta vivendo una seconda stagione, nelle sue svariate versione, in acciaio (La Rustìa), in legno (Vignot Sant’Antonio), spumante e passito.
In Toscana, Tenuta di Capezzana s’è fatta paladina di quello che per anni è stato il vitigno italico in assoluto più bistrattato, dimostrando che anche il Trebbiano toscano, se ben gestito soprattutto in vigna, può essere capace di dare vini di spessore, ampi e longevi.
Nelle Marche, Cocci Grifoni è stato promotore del “salvataggio” del Pecorino piceno, facendogli ottenere la Doc (Offida Pecorino) e regalandoci un grande chicca, capace di evolvere a lungo nel tempo.
In Abruzzo, il Pecorino è invece stato recuperato da Luigi Cataldi Madonna, nella piana di Ofena, con una particolare interpretazione del vitigno, decisamente calda e potente. Rimanendo in Abruzzo, vanno fatte altre due citazioni, scontate ma doverose: Valentini e Masciarelli, entrambi – seppur su registri completamente differenti – magistrali interpreti del Trebbiano d’Abruzzo.
Tornando a Nord, nel Carso, una piccola pattuglia di eroici produttori che hanno “vitato le pietre” – capitanati da Kante, Zidarich e Skerk – ha invece rilanciato due vitigni molto particolari, uno semiaromatico, la Malvasia Istriana, e l’altro dotato di un’incredibile carica minerale, la Vitvoska.
I longevi di “territorio”: alla riscoperta di un’identitarietà perduta
Tra i produttori “di territorio”, che hanno contribuito a far tornar grandi alcune denominazioni storiche, con vini personali, profondi, longevi, talvolta anche difficili e capaci di dare il meglio di sé solo dopo alcuni anni di affinamento, per il Soave vanno senz’altro menzionati Pieropan, con il suo La Rocca, Gini (foto 7), con il Contrada Salvarenza, eppoi Coffele, Suavia, Inama, Portinari.
Passando al Verdicchio dei Castelli di Jesi, non si può non citare Ampelio Bucci e la sua mitica Riserva Villa Bucci, prodotta con la consulenza del carismatico Giorgio Grai, che purtroppo ci ha lasciati; sempre rimandendo nel solco della longevità, grandi sono anche le etichette di Colonnara (Cuprese e Ubaldo Rosi spumante, in primis), Bonci, Fattoria Coroncino, Fattoria San Lorenzo (Vigna delle Oche Riserva) e naturalmente di Garofoli e Fazi-Battaglia.
Passando alla Vernaccia di San Gimignano, un posto d’onore spetta a Montenidoli, dell’eccentrica Maria Elisabetta Fagiuli, al suo fianco il grande (e compianto) Panizzi, fautore di una grande e longeva Riserva e di una Vernaccia che punta al recupero della tradizione, fermentata sulle bucce in tini troncoconici di legno e senza l’ausilio di lieviti selezionati.
Altri produttori da citare sono senz’altro La Lastra, i cui vini davvero escono alla distanza, San Quirico, Vagnoni e Palagetto. Parlando di Fiano di Avellino, Mastroberardino resta sempre un maestro di stile.
Alcuni esempi di nettari eterodossi (per gli enologi) di lungo corso
Per chiudere la panoramica sui bianchi da invecchiamento, non si possono non citare alcuni produttori pertinenti il filone degli “alternativi”, paladini della vitivinicoltura “naturale”. Fermo restando che ormai sono un po’ sparsi in tutta Italia a macchia di leopardo, ad esempio in Veneto vi sono due importanti esponenti di questo filone: Castello di Lispida a Monselice (Pd) e La Biancara a Gambellara (Vi), non si può non menzionare il nucleo storico di questo approccio vitienologico, ubicato nel Collio, idealmente capitanato da Josko Gravner e dal compianto Stanko Radikon, che include nomi quali Il Carpino, La Castellada, Podversic, Castello di Rubbia e il grande (già succitato) Zidarich (foto 6), segnatamente con la “sua” Vitovska.
Varietà probabilmente originaria del Collio Sloveno, oggi coltivata nel Carso triestino, trova la sua massima espressione nell’Igt Venezia Giulia Kamen, così descritta dallo stesso Zidarich: “Si tratta di una Vitovska in purezza, che fermenta spontaneamente e macera sulle proprie bucce in tini di pietra del Carso, così da esaltare al massimo la sua espressione territoriale di natura carsica, costituita da mineralità, freschezza e sapidità. La pietra è in grado di regolare in modo naturale la temperatura di fermentazione; ma l’aspetto entusiasmante è il fatto di usare un materiale naturale presente in vigna, dove i suoli sono assai più ricchi di roccia che di terra.
In qualche modo l’uva nasce e matura sulla pietra e in quest’ultima ritorna nella veste di mosto-vino, ricongiungendosi alle sue naturali origini; un aspetto unico, solo del Carso: territorio che, pur trovandosi in Friuli Venezia Giulia, per storia e tradizione nulla ha a che vedere con questa regione”.