Un ragazzo longilineo, magro, con lentiggini e un ciuffo di capelli biondo ramato, tagliato stile Elvis Presley senza brillantina: Flynn McGarry è nato a Malibu, in California, il 25 novembre 1999. Fin dall’età di 10 anni ha avuto ben chiaro in (quella!) testa di voler diventare top chef. Così solo due anni più tardi apriva “Eureka!”, un locale in casa dei genitori che offiriva un menu di dieci degustazioni al costo di 150 dollari (preparava le cene in una cucina all’avanguardia installata nella sua camera da letto). La sua specialità si chiamava “McGarry Beet Wellington”.
La sua celebrità fu istantanea. Ad appena 13 anni il New Yorker pubblica una sua biografia intitolata “Prodigy”. Nel marzo 2014 il New York Times gli dedica il servizio speciale “Lo Chef a 15 anni”, paragonandolo ad altri chef di fama mondiale come René Redzepi che avevano iniziato le loro carriere molto giovani. Lo stesso anno la rivista americana Time lo dichiara uno dei 25 adolescenti più influenti al mondo. Nel 2016 anche Vogue gli dedica il servizio speciale: “Un incontro con il Justin Bieber del cibo: lo Chef Flynn McGarry di 16 anni.”
Il 1° marzo 2018, dopo diversi stages e impieghi brevi in ristoranti americani ed europei (la maggior parte dei quali premiati con tre stelle Michelin), apre il suo primo ristorante permanente di nome “Gem”, al 116 Forsyth Street nell’East Village di New York, anche se è ancora troppo giovane per intestarsi una licenza per la somministrazione di alcolici. Lo spazio è diviso in due sale: una sala da pranzo e un salone per gli aperitivi e i dolci, caffè e digestivi.
L’arredamento è un miscuglio di mobili scandinavi, bohemienne e casual californiani.
Questo il menu che chi scrive ha provato: una ceviche di gamberi in succo di rabarbaro con peperoni grigliati e panna fresca; piselli con tofu fresco e uova di trota affumicate in brodo di funghi refrigerato; carne alla tartara con salsa tonnata, fave e portulaca; crema di asparagi con frutta secca; asparagi bianchi con aghi di pino; tortellini con pane fritto in brodo di parmigiano e cipolla caramellata; cetriolo grigliato e “celtuce” in yogurt con chili, foglie di acero affumicate e tuorlo d’uova; rapa rossa con sugo di cime di rapa e bordelaise; “la festa di aragosta”: diversi pezzi di aragosta grigliati e speziati con frutta. Abbiamo ordinato una bottiglia di Sant’Isodoro Verdicchio di Matelica Pié del Colle, l’unico vino italiano sulla lista.
Qui di seguito l’intervista esclusiva per La Madia Travelfood.
I nostri gusti per il cibo sono strettamente collegati all’infanzia; le tue prime memorie sul cibo?
Sono cresciuto vicino alla spaggia di Malibu in California, perciò amo il pesce. In più, avevamo un vicino di casa che pescava il tonno e che ci regalava sempre una parte del suo pescato. Avevo circa 5 anni all’epoca.
I suoi tonni sono i miei primi ricordi di un prodotto alimentare prima che fosse cotto o preparato.
Quando e perché è nato il tuo amore per cucinare?
A circa 10 anni. Ambedue I miei genitori erano dei “foodies” ed amavano cucinare soprattutto piatti semplici, per esempio, il pollo arrosto.
Purtroppo cucinavano le solite cose e io ero stanco di mangiare sempre gli stessi piatti o del take-out, dopo la loro separazione.
La soluzione: ho iniziato a cucinare.
Ma non cucinavo la cena e basta.
In poco tempo sono diventato ossessionato dall’idea di diventare un top chef a tutti i costi. Nei successivi due anni ho imparato le basi. Per il mio undicesimo compleanno i miei mi hanno regalato una copia del “French Laundry Cookbook” e in poco tempo mi sono impadronito di tutte le ricette più complicate. Guardavo anche senza sosta tutti i video riguardanti la cucina trasmessi su YouTube. Non andavo a scuola. Studiavo a casa seguendo un programma online, così da potermi concentrare sul cucinare.
Appena ho ritenuto che la mia abilità avesse raggiunto un buon livello, mi sono messo alla prova chiedendo a mia madre di invitare qualche amica a cena: preparavo io. Il numero degli partecipanti continuava sempre a crescere finché a 13 anni ho aperto un mio ristorante (pop-up “Eureka!”) a casa mia. Preparavo un menu di 10 degustazioni, che costava 150 dollari a persona.
La tua gavetta?
Ho iniziato al “Ray’s and Stark Bar”, un locale disegnato da Renzo Piano nel museo d’arte della contea di Los Angeles. Poi ho fatto brevi stages con Daniel Humm a “Eleven Madison Park” qui a New York, con Grant Achatz ad “Alinea” e “Next” a Chicago, e con Nathan Myhrvold al “Modernist Cuisine” a Seattle prima di lavorare per tre anni, tra i 14 e i 16 anni, con Ari Taymor ad “Alma”, in West Hollywood (locale che oggi non non esiste più). Mi sono quindi trasferito in Europa, prima ad Oslo, dove ho lavorato a “Maaemo”, e poi a “Geranium”. Tornato a New York ho fatto un paio di pop-ups, ciascuno di sei mesi, per poter continuare a viaggiare in Europa. Prima di aprire “Gem” sono venuto in Italia (purtroppo per troppo poco tempo), in Calabria, dove ho lavorato come contadino in una fattoria a Sant’Agata del Bianco, dove avevo degli amici. Da lì mi sono traferito a Modena, Bologna, e Parma: volevo imparare a fare la pasta fatta in casa. Adoro l’Italia e quando torno vado in Sicilia, a Catania. Credo che gli chef tre-stelle in Italia siano formidabili, ma l’aspetto che mi affascina del cibo e dei piatti è la semplicità e genuinità della cucina tradizionale.
Chi sono i tuoi mentori? Cosa hai imparato da loro?
Sono autodidatta. Ho voluto capire la molteplicità delle tendenze culinarie senza essere influenzato da una sola persona. Ho assorbito stili e tecniche culinarie da ristoratori diversi tra di loro. Ma, per esempio, ho imparato ad amministrare un ristorante da Humm.
Come definiresti la tua cucina?
Moderna e americana, focalizzata sulle verdure. Cerco gli ingredienti migliori al momento sul mercato e li preparo nell’originale stile McGarry.
Le qualità essenziali per diventare top chef?
La creatività, l’attenzione inesorabile ai dettagli, per ogni cosa, anche quella meno importante sia al ristorante, sia nella tua vita privata.
Devi prestare la massima attenzione per non trascurare niente; devi mirare alla perfezione; devi cercare di migliorare tutto tutti i giorni. Io amo lavorare sotto stress.
Nessuno chef famoso che conosco si siede sui propri allori. Molte persone non capiscono che un top chef deve essere un uomo d’affari esperto.
Diverse critiche ti dipingono come presuntuoso, viziato. E ricco. Allora perché hai successo?
Queste critiche sono al cento per cento sleali. I miei genitori non sono miliardari, fanno parte del ceto medio. Mio padre fa il fotografo e mia madre la sceneggiatrice. Ambedue sono persone creative, ma non sono famose. Devo il mio sucesso al mio impegno costante, alla mia determinazione, alla mia ambizione, ma anche al sostegno ricevuto dalla mia famiglia e da tutti gli chef con cui ho collaborato. Sì, è vero che ho soltanto 19 anni, ma svolgo le stesse mansioni di uno chef di 34 o 44 anni, perciò nessuno dovrebbe sputtannarmi solo perché sono giovane.
Uno chef italiano che ammiri?
Massimo Bottura sia per la sua bravura in cucina, sia per il suo impegno sociale.