Scarpe da ginnastica, jeans attillati, sorriso contagioso. Non passa inosservato, Nikita Sergeev, nelle file dei nostri cuochi under 30. Tanto che i flash dei media si sono già accesi sui suoi capelli biondi. Per l’entusiasmo, innanzitutto, con cui affronta la professione del cuoco: una passione totalizzante che si è tradotta in una crescita professionale accelerata. E per le singolarità di una biografia che celebra a tavola i propri percorsi tortuosi. Cominciando da quel nome sul passaporto, traslitterato dal cirillico di mamma Russia.
I natali cadono infatti a Mosca nel fatidico 1989. Un anno di cambiamenti rivoluzionari, non a tavola però: ci vorrà molto tempo prima di poter apparecchiare di nuovo dopo il lungo digiuno socialista. La cucina di casa è quella della bella mamma Ekaterina, di professione estetista, e soprattutto di nonna Tamara, che nei giorni di festa si esibisce nei suoi piatti forti, come anatra e maialino. Sapori che si imprimeranno sulla tavoletta dello stile, con le loro punte acide e affumicate, indagate tornando a casa con la memoria. Tutt’intorno con gli anni inizia a prender forma una ristorazione embrionale, che colpisce l’immaginario del giovane Nikita con la solennità un po’ fané del guéridon. L’idea di farne una professione tuttavia è quanto mai remota, tanto che gli studi si compiono in Scienze Politiche, con una tesi in diritto tributario e il diploma appeso al chiodo nel 2010.
“In Italia sono arrivato in vacanza con i miei genitori. Poi sono tornato per l’Erasmus e per studiare la lingua, ed è stato uno choc scoprire che la mia laurea non era riconosciuta, perché maturata fuori dall’Unione Europea, quindi avrei dovuto ricominciare da capo. Se volevo restare, per ragioni di visto, dovevo inventarmi una nuova professione: ed è stato così che sono finito sui banchi di Alma per 12 mesi con professori come Luciano Tona, Andrea Grignaffini, Silvio Salmoiraghi, Paolo Lopriore e un rettore del calibro di Gualtiero Marchesi. E ho scoperto un mondo”.
Con un pizzico di incoscienza è subito Arcade, il ristorante aperto nel 2013 con la mamma in sala, appassionata autodidatta, a Porto San Giorgio, luogo della joie de vivre, dopo il diploma da cuoco e lo stage al Tramezzo di Parma. Appena sette tavoli in un ambiente sobriamente classico, lontano dai bagnasciuga di Cedroni e Uliassi, con una cucina che si è fatta striminzita per le ambizioni di Nikita, attenzionato dalla critica nonostante qualche peccato di impazienza. Nel 2015 arriva anche il titolo di Emergente per il centro Italia nel concorso indetto da Luigi Cremona.
“Sono sempre stato affascinato dalla cucina italiana, che forse non è la migliore del mondo, ma è equilibrata e democratica, buona per il ricco e per il povero”, mette in chiaro Nikita. “Ho voluto comunque indagare anche le mie origini, leggendo libri e scomodando direttamente mia nonna. Ad esempio per approfondire la tecnica della fermentazione degli ortaggi e del latte, che da noi è assai comune a causa delle lunghe stagioni fredde. La contemporaneità poi continuo a batterla andando a mangiare dai colleghi, nello sforzo di comporre il puzzle di una cucina personale”. Spesso lo accompagna Ekaterina, desiderosa di carpire i segreti della professione sul campo, puntuale ed elegante nel volteggiare femminilmente fra i tavoli. A completare la squadra sono il giovanissimo secondo Edoardo Corpetti e il sommelier Leonardo Niccià, che cura con lo chef, chino sui testi AIS, una carta composta da 400 etichette in gran parte marchigiane e naturali, predilezione nata sorseggiando i vini della Georgia, prototipici della moda dell’anfora.
Le materie prime sono in gran parte locali: il pesce adriatico di una pescheria di fiducia come gli ortaggi dei contadini della Valdaso, raccolti sotto le finestre di casa Sergeev, protagonisti di un piatto per portata; più qualche ricetta di carne, soprattutto frattaglie e selvaggina. Nasce così il menu Libera Ispirazione (60 euro), volto a far assaggiare quanto viene reperito giorno per giorno al mercato (ma i fuori carta e i fuori programma abbondano ovunque, favorendo il ricambio). Gli fanno concorrenza i tre degustazione a sorpresa, con 4, 5 e 6 portate a 38, 48 e 55 euro; Percorso Nikita a 70 euro e una breve carta, composta di 3 corse per categoria elencate senza partizioni. Sono disponibili anche due formule di abbinamento al calice, a 25 e 32 euro. La cucina negli anni si è fatta più pulita e più precisa, sfrondando qualche barocchismo giovanile. Più influenze orientali, secondo un trend che sta prendendo il sopravvento fra i nostri giovani cuochi, e anche gusti arditi, alla ricerca dello spigolo in bocca e di sinergie primarie; per quanto Nikita resti un cuoco vocato all’eleganza e all’equilibrio, interpretato in chiave contemporanea. L’anima è russa, nella profondità fantastica e in qualche struggimento della nostalgia; il pensiero, come il paniere, italiano; il risultato un piacevole pluristilismo, che mantiene desta l’attenzione con i suoi sconfinamenti. Si comincia con gli appetizer: lo zito fritto con salsa al prezzemolo, la sfogliatina di gambero rosso e pepe rosa, il crostino di pane carasau all’acqua di polpo, la tartelletta con ricci di mare e salsa carpione, efficace sinergia sapido-acida. E si entra nel vivo con gli antipasti. Il cannolicchio, per esempio, praticamente una monografia dedicata al mollusco, che viene sbollentato e aperto, per poi recuperare le interiora, mondate ed emulsionate al momento del servizio con pochissimo olio di vinaccioli, fino a ottenere una salsa lucida come una maionese che spara iodio in bocca. Completano il piatto due punti di crema amarissima di limone, cotto nello sciroppo e frullato intero, e una salsa lattica all’aglio, per il richiamo alla tradizione e la morbidezza sui contrasti. La polpa è croccante, i gusti netti e ortogonali. Oppure i gamberi rossi con vermut, coriandolo e olivello, dove i crostacei di Mazara sono proposti crudi con tre salse: l’estrazione dell’erba leggermente addensata all’agar-agar; il vermut per la dolcezza, la speziatura e l’alcol crudo che ripulisce; la bacca quale spia nostalgica della Russia. “Grassa e acida, la adoro. Da noi viene usata come marmellata; io l’ho portata sul salato e sul pesce, al posto della spruzzata di limone italiana”.
Risalta per via di paradosso il comparto dei primi piatti, dove Nikita, a dispetto delle origini, mostra una mano particolarmente felice, che si tratti di risotti, paste secche o ripiene. Sono la scacchiera per una mossa del cavallo, che attraverso l’italianità può condurre al recupero delle origini russe, come avviene negli squisiti tortelli di anguilla affumicata alla barbabietola, ricetta che non smette di evolversi. Non sono da meno i tortelli di coniglio in brodo di patate arrosto e rafano fermentato, nati per traslare un secondo in primo piatto. Corroboranti e molto confort, sono preparati con una sfoglia tutta tuorli e una farcia di polpa saltata allo Sherry; vengono tuffati in un brodo ottenuto per via di infusione da patate arrostite con aglio e rosmarino, lucido e ambrato come un consommé; più qualche punta di paté di fegatini. La nota contemporanea e spiazzante arriva dai dischi di rafano, ingrediente ben presente nelle tradizioni russe, che viene però lasciato fermentare con poco sale, per mitigare il piccante e guadagnare acidità, in modo da stimolare a mangiare, spezzando la rassicurante tendenza dolce. Anche i risotti sono eccellenti: quello ai sapori di mare come il risotto al cardamomo verde e ostrica, preparato marchesianamente senza soffritto e all’acqua. Viene mantecato con un “sorbetto” di prezzemolo e cardamomo (frullati insieme, abbattuti e pacossati), che grazie allo choc termico propizia l’esplosione dei profumi erbacei e speziati, rimpiazzando il burro freddissimo. L’ostrica di Marennes-Oléron porta la sensazione salata e quasi tannica, che bilancia la morbidezza pseudograssa con un effetto di pulizia in bocca.
Fra i secondi la faraona con pastinaca e alga kombu, dove il volatile è smontato in ottavi e passato a bassa temperatura (tecnica cui Nikita solitamente preferisce cotture espresse e italiane), poi rosolato in padella. Dalle ossa arriva il classico jus, sul piatto con la purea a tendenza dolce della pastinaca e una spolverata di alga sapida, reidratata dalla succulenza della carne. Oppure il baccalà con creste di gallo, gioco di consistenze sul collagene. Quello del pesce confit viene echeggiato dalla polenta, sotto forma di spuma senza aggiunte, e dalle creste di gallo, splendidamente gelatinose dopo la cottura a 100°C. I dessert sono comfort. Per esempio la zuppa inglese, grande classico destrutturato come crema pasticciera alleggerita dalla panna, gelato all’alchermes e biscotto al cacao quasi ghiacciato per il cioccolato. Un piatto contemporaneo e bilanciato nei suoi contrasti di consistenze e temperature. Oppure il cioccolato bianco, sorbetto al cardo e bottarga, con la ganache all’infusione di pepe di Giamaica, il gelato amarotico e leggermente tannico, preparato in stagione col carciofo estratto a crudo, la spolverata di bottarga per il contrasto sapido e l’umami, qualche bacca pungente per l’acidità. In cerca dei gusti primari.