Qualcuno l’ha definito il ristorante più bello d’Italia. Del Cambio, a Torino, è un monumento della torinesità, non meno della Mole Antonelliana, affacciato sulle austere architetture barocche e poi ottocentesche di una città che sta tornando capitale gastronomica del nord ovest. Facilmente si immagina Camillo Benso di Cavour che si alza dagli scranni del primo parlamento d’Italia e traccia una diagonale a passo di redingote per Piazza Carignano, fino a quella porta di solenne discrezione (come si usa da queste parti), sovrastata dalla lunetta Del Cambio. Esercizio che a dispetto del nome, varcata la soglia precipita nella penombra di una macchina del tempo, dove tutto è immutato. I lampadari di cristallo, le boiserie e le specchiere, gli stucchi e gli affreschi di Roberto Bonelli. Perfino il tavolino del conte habitué, con la sua seduta cardinalizia in velluto rosso.
Sembrava un ossimoro, cambiare Del Cambio, eppure a distanza di 4 anni dal passaggio di proprietà, si può certificare che l’operazione è riuscita. Sembrava soprattutto inaudito che a tentarla fosse chiamato uno dei cuochi più inquieti e irriverenti di quella che è stata l’avanguardia italiana, giovane creativo nato a pochi chilometri di distanza, in quel di Giaveno, città degli chef, da cui arriva pure Mammoliti. Ma è stata proprio questa la chiave di un’evoluzione che non si è ancora arrestata. La si legge nel design dei luoghi, a cominciare dalla sala Pistoletto, rimaneggiata dal grande artista con i suoi celebri quadri specchianti. Perché non c’è arte più inclusiva della gastronomia. Soprattutto nella filosofia di una cucina che pratica la stessa intermittenza fra culto della memoria e maieutica del futuro. Qualcosa di profondamente torinese, se è vero, come scriveva Calvino, che questa “è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica e, attraverso la logica, apre alla follia”, come dimostrano decenni di rivoluzioni e controrivoluzioni culinarie.
Proprio per questo è in punta di piedi che Baronetto, figlio di un operaio Fiat, ha fatto il suo ingresso nel sancta sanctorum. “Sono arrivato nel rispetto dei luoghi, perché qui mi sento ospite”, dice. “Del Cambio esisterà ancora dopo di me: è un patrimonio della città, come dico sempre, un museo pubblico e privato che vive sull’accoglienza ed è l’accoglienza stessa, insieme al modo di mangiare, a essere cambiata. La cucina, il vino, perfino le sedute”. Da temporeggiatore qual è, fin dai tempi di Cracco-Peck, quando cofirmava la cucina restando un passo indietro, ha aspettato che maturassero i tempi per spostare l’asticella verso la creatività, talvolta felicemente ispirata da polverosi lasciti testamentari. La partenza è stata sotto il segno della tradizione, con classici quali la sogliola alla mugnaia o la finanziera, prediletta da Cavour, riportati in auge senza imbellettamenti modaioli. Poi nuove proposte si sono aggiunte nelle diverse sale.
Oggi la carta è divisa in due sezioni: la tradizione e la contemporaneità, in modo che ogni ospite trovi facilmente le chiavi del suo pasto. Chi opta per la prima può ricevere un degustazione da 7 corse a 110 euro, più abbinamenti a 60-85. Piatti che spaziano dall’antipasto piemontese al vitello tonnato, dagli agnolotti a un marchesiano controfiletto al vapore, fino all’immancabile bonet. “Sono totem che ho cercato di interpretare, conservandone l’anima, in modo da valorizzare la ricetta tradizionale. Per esempio gli agnolotti, che sono classici, ma al posto del sugo d’arrosto con il vino c’è un fondo di carne alleggerito; sotto ho spolverizzato il parmigiano e sopra il pangrattato passato in padella per la nota tostata e croccante, così da spostare gli equilibri”.
Poi c’è il menu Nel Tempo, che riproduce plasticamente la geografia non solo stilistica del ristorante. Come sulla soglia fra le sale Risorgimento e Pistoletto, le ricette di sempre sono proposte in variazione, da una parte la filologia, dall’altra l’interpretazione d’autore. Un concetto già proprio di un altro torinese, Pier Bussetti, che Baronetto sviluppa a modo suo, forte dei luoghi. Ci sono le acciughe al verde e i gamberi viola in salsa rosa, gli gnocchi alla romana, l’orata alla mugnaia e il filetto alla Rossini, con l’alternativa della costoletta alla milanese, per finire con la cheesecake. Due volte otto piatti a 125 euro, più 75-95 per gli eventuali abbinamenti.
Ne fa parte anche il ramen piemontese, quasi una provocazione, all’apparenza, fra i fantasmi di Cavour. Dove la struttura è quella del modello giapponese, ma ingredienti e sapori arrivano dal territorio: ci sono il brodo di manzo alle croste di Parmigiano, l’acciuga, il peperone alla brace, il tartufo, i tajarin, le nocciole e a fianco la tuile di polenta fritta. Giustamente comfort, anche per variare gli stili verso una proliferazione non meno barocca delle facciate prospicienti. Mentre il confronto con il ramen originale inverte i ruoli fra modello e variazione, noto e ignoto. E la bresaola di Gio’ Porro affiancata da fettine di estratto di barbabietola addensato al tuorlo marinato: un trompe-l’oeil in cui confluiscono i due filoni di ricerca di Cracco-Peck. “Anche il modo per attirare l’attenzione su come la bresaola spesso sia mascherata dal suo condimento, nel secondo caso parmigiano, rucola e limone”.
La creatività di Baronetto però batte soprattutto nel menu intitolato all’Improvvisazione ragionata (6 corse a 135 euro), ovvero a un modus operandi ossimorico, che tuttavia “si allinea”, dove l’improvvisazione è il compimento subitaneo del piatto e la ragionevolezza qualcosa di anteriore, già presente in nuce. Viene cucito sulle preferenze dell’ospite, con la possibilità di abbinare 4 o 5 calici per una forchetta di prezzo compresa fra 60 e 95 euro. La sua composizione è a sorpresa, secondo gli arrivi quotidiani di carne, pesce e verdure (spesso prodotte nell’orto della casa), con un precipitato più o meno avanzato di sperimentazioni dello Chef’s Table.
E soprattutto nello Chef’s Table stesso, esperienza in tutti i sensi irripetibile. Ci si accomoda nel retro della cucina scintillante, in un antro nascosto che immette nella Farmacia, ora pasticceria del Cambio. Quasi uno speakeasy, senza separazione dai fornelli, tanto che sono i cuochi stessi a porgere i piatti dal bancone, spiegandoli. E il servizio è ridotto ai minimi termini, con il sommelier che ogni tanto sbuca con qualche bottiglia. I posti sono al massimo 5 e vanno prenotati prima al ristorante, poi con Baronetto in persona, che verifica la compatibilità con gli impegni della cucina e sonda gusti e aspettative degli ospiti. Ne risultano 10-12 piatti sempre diversi, messi in sequenza collegialmente insieme alla brigata, al prezzo non modico di 270 euro, bevande escluse. Impossibile pentirsene.
Matteo Baronetto è infatti uno dei pochi creativi puri della cucina contemporanea italiana. Come da Cracco-Peck, il flusso di ricette ex novo è ininterrotto, per quanto percorra e ripercorra i canali di ossessioni straordinariamente coerenti, in un senso e nell’opposto, configurando uno stile personale. Lo stile di solista quale Baronetto, passato unicamente per insegnamenti marchesiani di primo e di secondo grado, senza esperienze decisive in Francia e in Spagna, indubbiamente è.
Vedi lo schema più che mari e monti, mari e viscere, inaugurato a Milano da un epocale musetto con gli scampi e reinterpretato continuamente. Indimenticabile, ad esempio, l’incastro perfetto fra il rognone e i ricci di mare in un piatto binario, dal tasso di difficoltà altissimo nella massima semplicità tecnica e compositiva. Ma le complementarietà fra l’elemento ittico e quello “di pancia” possono essere diverse, ora nel gusto, ora nelle testure, ora visivamente, per analogia o per contrasto.
È il caso dei rossetti crudi con coda brasata, per la similitudine visiva, o paté di fegatini: nord e sud sulla bruschetta, con il secondo che condisce i primi, l’amaro sulla sapidità. O ancora di epocali ricci con sugo di carne ed estratto di limone. Oggi nel piattino con i dischi di midollo al forno alternati alle rondelle di capasanta cruda, dove il primo elemento va a condire il secondo, nella similitudine delle geometrie, mentre il disegno sottostante dell’insetto evoca la metamorfosi in atto nel piatto. La tecnica si svuota, in favore del pensiero e soprattutto dell’istinto del cuoco, la cui cognizione della materia sembra quasi sconfinare in una forma di sciamanesimo. Anche qui costruzione ad enigma e struttura binaria.
Oppure del più “marchesizzante” filetto di triglia con la fettina di testina che lo ingrassa, ricomponendo il collagene di un pesce da zuppa, mentre l’idea del bollito è ripresa dalla quasi salsa verde di purea di prezzemolo e colatura di alici, che scartavetra con i suoi flavonoidi.
Poi c’è il filone, ispirato ai luoghi, dei piatti vintage. Ieri il geniale aspic di pasta, oggi il raviolo di pasta al vapore, impalpabile e carezzevole, sovrastato da una fettina di branzino crudo con centrifugato di scorza di limone per la freschezza, tassidermia di un classicismo d’antan, pre nouvelle cuisine. Ma financo le ricette nitidamente avanguardiste sono trapuntate di riferimenti classici, francesi o marchesiani. Il piatto è nudo, l’ingrediente solitario: esaltarlo senza banalizzazioni, attraverso un gesto o un accostamento, è la sfida dello chef, sempre più disinteressato alle piro-tecniche del recente passato. Vedi, emblematico, lo scampo crudo, steso sul piatto apparentemente al naturale, in realtà spennellato di un olio di vinaccioli infusionato a caldo alle foglie di fico, che ne amplifica miracolosamente l’aromaticità, mentre ne addenta la grassezza dolce attraverso la leggera grip vegetale e amarotica. Senza aggiunta di sale. Un non piatto di anticucina, che può riuscire solo a un grande chef. Viene servito con un altro piattino a fianco, dalle sembianze ospedaliere: puntarelle appena spadellate e finocchio sbollentato, le cui testure coincidono grazie al punto di cottura al secondo, nel filone delle similitudini spiazzanti.
Ma da un anno e mezzo la ricerca è focalizzata soprattutto sugli aceti, intesi quale veicolo di profumo più che di acidità. Vengono aromatizzati per infusione degli ingredienti più vari, con l’aggiunta di una parte di zucchero per innescare la fermentazione, e anche per ammorbidire. Dopo qualche mese, fino a un anno, di riposo in un recipiente chiuso vengono utilizzati con il contagocce. “Perché voglio che siano sfumature nel piatto”. È il caso dei fiori di limone, ma anche di mandarino verde, uva fragola, salvia, caffè, sambuco, zafferano; dell’aceto alle spezie con insalata salanova dell’orto, riduzione di barbabietola e sugo di carne o di quello al tè affumicato con merluzzo marinato al vino rosso.
Il sommelier è Cristian Brancaleoni, già in forze a Villa Sparina: amministra una carta di oltre 2000 etichette, con il Barolo e il Barbaresco in evidenza.
C’è anche la Cuvée Del Cambio, provvisoriamente fuori denominazione, realizzata da Contratto. Ma l’abbinamento è a geometrie variabili, come la cucina, ora per concordanza, con l’acidità in scia sugli aceti, ora per contrasto. Vedi il Moscato d’Asti La Moscata Mongioia sull’insalata piemontese, per la freschezza agrumata sulle sapidità.