C’è ancora bisogno di spendere parole su Massimo Bottura? Miglior chef italiano in patria e nel mondo non solo secondo la “50 Best” che l’ha inserito tra gli emeriti come fosse Papa Ratzinger, lui che il Papa in carica l’ha incontrato in questi giorni a riprova dell’alone di santità che lo circonda come un sapiente cui l’indiscusso magistero conferisce negli anni un alone di misticismo. Lui, che balza come un folletto danzante tra progetti umanitari, Refettori in punti lontanissimi del globo, Tortellanti per assicurare un futuro a ragazzi disabili, progetti mirabili per case di moda, collezionismi artistici, conferenze mondiali sui temi cardinali dell’alimentazione a partire dagli annosi sprechi, incontri con capi di governo e illustri statisti pur in quest’epoca di egemonia economica e aridità politica. Tutti ne scrivono, tutti ne parlano, tutti gli rendono doveroso omaggio. Allora perché parlare ancora di lui? È presto detto. Massimo Bottura, a dispetto dell’immagine pubblica, degli impegni ormai istituzionali, del ruolo di testimonial d’eccellenza della cucina italiana nel mondo, non si è coperto dei panni del meta-chef, continua a vestire la giubba del cuoco-intellettuale, il primo e (tuttora) unico dopo Gualtiero Marchesi. E, parafrasando una frase impropriamente attribuita a Dostoevskij, “solo la cultura salverà il mondo”.
L’omaggio di Massimo Bottura a Mario Soldati e ai cantarelli
Massimo Bottura ne è consapevole a tal punto che, dall’alto della sua essenza ferocemente “glocal”, nell’anno in corso ha reso omaggio a uno dei padri della cultura gastronomica italiana, a quel Mario Soldati che a cavallo tra il ’57 e il ’58 percorse la Valle del Po dal suo Monviso all’Adriatico, nel primo viaggio itinerante alla scoperta della ricca gastronomia del percorso fluviale, quando l’Italia aveva da poco terminato di raccogliere i cocci della Seconda Guerra Mondiale e si accingeva a vivere il proprio personale boom economico.
Non è certamente il punto d’arrivo nel mondo visionario di Bottura, ma l’ennesimo, gustoso episodio, dove l’attenzione alle radici rivela tratti emozionali più marcati rispetto ai percorsi consueti dello chef.
La cucina del modenese, infatti, è in primo luogo concettuale, procede per immaginazione cui segue la realizzazione; se fosse un personaggio de La Scuola di Atene di Raffaello, Bottura sarebbe Platone che indica in alto il mondo delle idee, contrapposto ad Aristotele che tende in avanti la mano indicando la sostanza. In Bottura la sostanza non manca per nulla, sia chiaro, ma questa è il punto di arrivo, il termine del processo. Non è un caso che per lui si sia scomodato anni addietro Achille Bonito Oliva che lo definì “il sesto artista della Transavanguardia” perché i suoi piatti nascono da un’idea e poi seguono uno sviluppo circolare, quasi a spirale, che di quell’idea si nutre. L’arcinoto “Omaggio a Thelonious Monk” è la sintesi di questa attitudine, è la traduzione in termini culinari dell’essenza di Monk che, secondo lo stesso Bottura: “ha cercato per tutta la vita il suono delle proprie radici” ispirando allo chef un piatto tutto nero di nero di seppia, merluzzo, brodo di tonno alla giapponese, dove “il cuoco spegne la luce lasciando l’esperienza al solo palato”. La realizzazione pratica di una delle forme d’arte che ispirano Bottura, il jazz, connubio di tecnica e improvvisazione che in cucina diventa “improvvisazione di un’idea”. E che, poco casualmente, rappresenta il trait d’union ideale con due piatti iconici di Marchesi, la “seppia al nero” e “il rosso e il nero”.
L’attuale astrazione botturiana affonda nella storia più che nell’arte: forse è proprio questo il punto di contatto più evidente con l’amato Monk, perché è possibile che qui lo chef “abbia cercato per tutta la vita il gusto delle proprie radici”. Nel dipanarsi della collezione ragionata 2019-2020 dell’Osteria Francescana ci sono sempre alcuni classici, perché in fondo la cucina di Massimo Bottura non prescinde mai da quelle radici coerenti che attaccano a Campazzo con le azdore e crescono con la spina dorsale di Cogny, Ducasse e Adrià: Magnum di foie gras e croccante; le cinque stagionature di parmigiano; e la generosa anguilla che risale il Fiume Po sulla stoviglia Ginori (foto a lato), “fiaba e storia” che ripercorre il faticoso viaggio dei duchi d’Este D’Este nel trasferimento della capitale da Ferrara a Modena, sempre ammaliante nella sua laccatura “alla giapponese” nella localissima salsa di Saba, ottenuta dal mosto giovane, cui s’accompagna la composta di mela campanina di Mantova.
Qui nasce il Po
Sono intermezzi coerenti, tappe nell’itinerario, che inizia con un brodo essenziale di vongole, erbe spontanee, alghe marine: “Pollution Revolution!” che suona come la premessa di un manifesto programmatico invero forse già visto, che induce a “trarre il buono dal brutto” dove però subito dopo si affaccia il bello, “La Vie en Rose” che induce meraviglia, con la scoperta dell’Ostrica Rosa del Po, una Tabouriech di particolare complessità gustativa coltivata nell’incontaminata Sacca degli Scardovari da Alessio Greguoldo, che Bottura accompagna a crème fraiche, uova di trota, polvere di karkadè e brodo di lambrusco dealcolizzato. Lo chef è in sala, guizza d’orgoglio quando introduce il primo piatto filologico del percorso, che coglierebbe di sorpresa anche il più consumato appassionato di volumi polverosi: il Caviaro di Messisbugo, cuoco ferrarese del Rinascimento che avrebbe codificato il primo caviale di storione del territorio. Siamo nella foce del Po, il viaggio procede lentamente verso ovest con una deviazione nelle paludi degli estensi: il brodo è nero di cipolla bruciata e prosciutto, con il cucchiaio si pesca lo storione essiccato con il caviale e i gamberi di fiume, l’effetto è diverso da Thelonious Monk, vuole forse suscitare un ricordo atavico di sapori infantili per i nativi del luogo e sorprendere chi è cresciuto altrove, in altri territori. Il viaggio procede verso la sorgente, il “riso tra acqua dolce e salata” ha crema di carpione e succo d’arancia tra branzino marinato e finocchietto è quasi un intermezzo, un divertissement. L’anguilla è uno dei piatti storici di Bottura, precede “neve al sole” crema di patate con funghi, tartufi, lumache, polvere di caffè e una crema di aglio di vibrante personalità che simula la neve quando si scioglie e schiude i profumi della terra. Il piatto principale è la faraona in tre portate, dedicata a Milena Cantarelli. “E’ stato un luogo della mia infanzia” dice lo chef, “festeggiavamo là i nostri compleanni, tra le mura di quel luogo incantato a Samboseto”. L’emozione lascia spazio al rigore, ravioli di patate con salsa della carcassa, il petto arrosto sormontato da uno strato di bollito, una foglia di tartufo, salsa al foie gras e mostarda, completata dalla sfera finale di pelle croccante, fegatini, cioccolato e tartufo.
Un gioco che riprende molte delle regole transalpine, che sono le stesse che praticava Milena Cantarelli nel suo mitologico percorso. Il percorso si chiude con le castagne del Monviso, con la riproduzione dell’iconica lapide immortalata nel programma di Soldati: “qui nasce il Po”.
OSTERIA FRANCESCANA
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