Corrado Alvaro ha descritto la Calabria come “bella e difficile”, una terra di contrasti dove convivono il mare e la montagna, una natura aspra che sa dare frutti unici, gente dal carattere forte, testarda, ma dal cuore grande.
Una regione che negli ultimi anni è sotto i riflettori della critica enogastronomica grazie ai nuovi talenti della cucina che vi si sono affacciati. Giovani chef che hanno girato il mondo e l’Italia per poi tornare indietro, alle radici, con una visione rinnovata, interpreti di questa terra secondo nuovi schemi.
Tra i protagonisti di questa rivoluzione gastronomica del Sud Italia c’è anche Luigi Lepore, che con sicurezza e orgoglio afferma: “La mia cucina non avrebbe senso di esistere altrove, lontano dalla mia terra”.
La sua è un’avventura iniziata nel 2019, due anni vissuti a singhiozzo a causa della pandemia e delle chiusure forzate, ma che lungo il percorso ha dato dimostrazione di crescita e di aver saputo trovare la sua direzione e la sua identità.
Siamo nel centro storico di Nicastro (Cz), tra i vicoli che si affacciano sulla piazza, vecchie facciate e palazzi d’epoca. Qui ci accoglie il suo ristorante “Luigi Lepore” – appena insignito della sua prima stella Michelin – un angolo di grande stile e modernità con la sua eleganza minimale e le atmosfere un po’ scandinave, fatte di pareti nude, tavoli leggeri in legno scuro, illuminati e senza tovaglia.
In sala c’è Stefania Lepore, sorella dello chef, con un percorso simile alle spalle. Studi di marketing a Milano per poi tornare a Lamezia Terme, innamorarsi di questo progetto gastronomico e buttarcisi dentro a capofitto. A lei la responsabilità di accompagnare i commensali nella scelta e nel racconto dei piatti con la stessa passione con cui Luigi sta ai fornelli.
Questo che abbiamo descritto è lo scenario del lavoro quotidiano di Lepore, fatto delle materie prime del territorio, bagaglio culturale profondo dello chef, messo in scena con esperienza. Lepore sa (re)interpretare la tradizione dei suoi luoghi, le ricette antiche che prendono nuove forme e nuovi colori, sapendo impreziosire quegli ingredienti poveri ed essenziali, che lui predilige, attraverso una miscela alchemica.
Il risultato è una serie di piatti coraggiosi, dai sapori forti, a tratti audaci, ma sempre equilibrati e impreziositi da note pittoriche che impattano alla vista con un cromatismo che come lui stesso racconta: “È frutto di una ricerca gustativa, di abbinamento di sapori e ingredienti, più che di una ricerca visiva”. Per fare un esempio, sintesi di questo suo estro sono le animelle, sardella, peperone e ribes dove ogni tonalità di rosso offre un sapore diverso.
Nella cucina di Luigi Lepore nessun ingrediente manca all’appello e nessun ingrediente è una comparsa. Tutti sapientemente trasformati nella forma, nelle consistenze, ma riconoscibili ad ogni assaggio.
La sua personalità gastronomica si riconosce dai dettagli, dagli elementi di contorno come la liquirizia, il ginepro, l’alloro, l’arancia, che rappresentano la firma dello chef. E uno dei piatti simbolo del suo stile è sicuramente il risotto al burro di ginepro, liquirizia, alloro e gin, in cui rivive il bosco con i suoi profumi e i suoi colori: una natura quasi incontaminata che si svela in questa meticolosa combinazione di erbe aromatiche rendendo sofisticato il piatto.
Ci sono gli ingredienti di tradizione, quelli non possono mai mancare, come gli agrumi, l’agnello e il maiale, la scelta del baccalà, a cui si affiancano poi l’anatra o il piccione, la cacciagione, il tamarindo o il chinotto e le erbe spontanee e aromatiche con cui lo chef ama sperimentare.
La tradizione apre la strada e si arricchisce lungo il percorso con l’uso estremo di alcuni elementi, come la già citata liquirizia per cui Lepore ha un debole, la riscoperta di frutti dimenticati come il sorbo o la creazione di dolci unici, sopra le righe, fatti di timo, rosmarino, mirto, foglie di fico, olive. Elementi inusuali che hanno il ruolo e il potere di stupire.
Nelle creazioni del nostro chef c’è una ricerca minuziosa e attenta, uno stile che mette insieme la tecnica, attenta e sofisticata, la complessità dei piatti, la creatività, le consistenze tutte diverse: un mix di competenze e fantasia che non puntano solo all’estetica o all’eleganza impersonale.
Dagli amuse bouche iniziali, alla Lestopitta con tartare di pecora, che incuriosisce, alla cialda al miele con crema di olive verdi, finocchietto e peperoncino dolce che stupisce, fino ai dessert creati dal pastry chef Federico Cari.
C’è identità profonda, un unicum.
Tra i suoi piatti cult è d’obbligo citare il sorbetto di insalata di pomodoro, olive taggiasche e acqua di cetriolo, rivisitazione del piatto tipico estivo calabrese (l’insalata di pomodoro), colorato, fresco, dai toni dolci e acidi.
Merita assolutamente la sua versione gourmet della “stroncatura”, altra ricetta storica, una pasta prodotta con le crusche dello scarto della molitura con olio, aglio, peperoncino, sarde, olive, pomodori secchi, mollica di pane tostata, riproposta da Lepore sotto forma di tortello.
“Ricordo di stroncatura” diventa un piatto con cui fare un viaggio verso le origini e ritorno. O ancora i bottoni ripieni di peperone al brodo di liquirizia, dove la dolcezza dell’interno si scioglie nel brodo che domina il palato.
Nella dicotomia tra cucina povera e gourmet, c’è anche la lingua di manzo, pesto di menta, crema di peperone, olio di peperone alla brace, l’agnello, cicoria, corbezzolo e aglio dolce che della Calabria racchiudono l’essenza dei profumi intensi per arrivare alla “Lepre con castagne, ribes nero e ginepro” che gioca sulla doppia cottura della carne e sui toni dolci e acidi che chiudono il cerchio.
Nei suoi piatti il dolce e l’acido trovano convivenza, così come le cremosità e le croccantezze, toni speziati e profumi leggermente esotici avvolgono il palato.
Sono questi i tocchi di sapore che firmano il suo stile, rendendolo riconoscibile, confermandone la bravura e svelando una rinnovata eleganza.
Le tecniche di cottura si esprimono al meglio nella morbidezza della lingua, dell’agnello o del maiale, rese morbide al palato da cotture sottovuoto e a basse temperature, che si alternano anche a cotture all’ancienne per ingredienti e tagli più tradizionali, invece che a cotture brevi e delicate sottovuoto come per alcuni secondi di pesce.
Luigi Lepore in questo non è seguace di tendenze, ma sceglie e applica la tecnica giusta per il suo obiettivo. Lo vedi spaziare tra padelle e forni, tra panificazione con lievito madre e prefermentazioni (la sua focaccia è stupefacente, nel senso che sa creare dipendenza) tra impasti e farce.
E infine arriviamo ai dessert, anche se è riduttivo chiamarli così.
Sono piccoli gioielli di creatività curati da Federico Cari, dove anche gli ingredienti più semplici o poveri come il finocchietto selvatico e il peperoncino possono essere riproposti in un sorbetto.
Sono racconti di una terra, come la scirubetta con gelato di foglia di fico e mosto cotto di fico, che parla di antiche tradizioni e sapori dell’infanzia, sono provocazioni come gelato alle olive nere con emulsione di arance o gelato al latte di capra, granita di bergamotto, olive nere e ristretto di liquirizia che in bocca si trasformano in emozione: un fantastico equilibrio che non ti aspetti e ti innamora.
Se l’esordio dello chef Luigi Lepore incuriosiva, ora il suo talento e la sua cucina confermano una personalità riconoscibile, che trova piena corrispondenza in una Calabria totalmente ridisegnata.