«Tutto deriva dall’acqua, e tutto in essa si risolve», scrive in uno dei suoi rarissimi frammenti – citato da Plutarco – colui che viene considerato il più antico filosofo della Grecia classica: Talete di Mileto.
Un principio – arkè – ordinatore del mondo e della materia, al quale tutti gli altri elementi, e pure gli esseri umani che, immersi in un liquido, prendono forma, prima di venire alla luce, devono sottostare.
Ma il discorso potrebbe continuare, se solo si andasse a considerare che l’orbe terraqueo è molto più acqueo che terreo, o che i corpi sono composti per la stragrande maggioranza di atomi di idrogeno e di ossigeno, legati in una molecola composta 2 a 1.
E difatti quanto sia importante l’acqua per la vita e la sua continuità su questo pianeta è oramai argomento di discussione quotidiana (e – si spera – di sensibilizzazione e riflessione per ognuno di noi) su tutti i maggiori massmedia.
Nel suo piccolo, anche per Davide Possoni l’acqua – quella di mare, soprattutto – è importante. Il ristorante dove è nato e cresciuto, giocando fra i tavoli da bambino, e poi di quei tavoli diventando il raffinato regista, insieme a suo padre Pino, è diventato famoso, già negli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso, proprio per i suoi piatti ricchi di materia equorea.
Stiamo parlando, ovvio, del Ma.Ri.Na, di Olgiate Olona, piccolo paese del basso varesotto noto ai gourmet per questa tappa irrinunciabile del buon mangiare.
Crostacei, molluschi, pesci… un ben di Dio di eccelsa qualità che ogni mattina Pino si procura senza badare a spese: «Io porto in tavola solo il meglio», dichiara con orgoglio.
Ma anche con la consapevolezza che è proprio per quel ‘meglio’, che solo qui si può trovare, che gli ospiti arrivano da molto lontano.
Ma ora Davide (classe 1980), con il sostegno dell’amico e socio Andrea Marcella, si è appena lanciato in un’avventura tutta sua, con un locale che rispecchia totalmente la sua idea di cucina e di ospitalità a tutto tondo. Il passo è stato breve, Ma.Ri.Na rimane appena sull’altro lato della piccola piazza di paese. Ma assai più vasto sul piano concettuale. Non sarà solo la materia a stupire, qui. Ma anche la sua preparazione, secondo i canoni di una esperienza che «vuole essere – dice Possoni jr. – di piacere complessivo».
Acqua, è stata battezzata questa creatura che ha aperto i battenti da qualche mese, riscuotendo già molto successo. Un nome che non è un omaggio, ma piuttosto una dichiarazione d’intenti: come l’acqua è elemento primario, così questa Acqua intende essere una «totale immersione nel gusto».
La sede, costruita ex novo, e che al primo piano ospiterà delle raffinate suite (ora in via di allestimento), appare esternamente come uno stilizzato vascello, agile e solido al contempo, pronto ai perigli del mare.
La stessa impressione si ripete una volta varcato l’ingresso, quando ci si accomoda in una lussuosa sala che in tutto sembra quella di un modernissimo yacht allestito da un grande designer, con bellissime illuminazioni soffuse che modulano la loro intensità a seconda della luce esterna.
E con un inaspettato e inconsueto giardino tropicale (un vero e proprio pezzo di giungla, dentro una teca bioclimatica) a spezzare, con il suo verde intenso, lo psichedelismo dei blu, dei neri, e del bianco diafano di alcune cantinette – giù, sulla parete di fondo – che con orgoglio conservano il meglio assoluto della produzione champagnistica.
Le etichette più preziose? Ci sono. Quelle più rare? Pure. E le più costose? Anche!
Ma è ovvio che sia così: Davide Possoni è sommelier appassionato e fine conoscitore. Negli anni passati, mentre aiutava nel locale di famiglia, aveva già aperto una sua propria attività: l’enoteca Capogiro, raccogliendo con pazienza e perizia bottiglie su bottiglie. Italia, Francia, resto del mondo… facendo infine confluire tutto qui, nella cantina di Acqua.
La ‘lezione paterna’, però, è stata ben appresa da Davide. Non si vive di soli liquidi, acque o vini che siano. È necessario anche un altro 50% a tavola. E a sovrintendere a questa ‘seconda metà’ è stato chiamato Alessandro Menoncin, 33 anni e un bagaglio di esperienze importanti, maturate perlopiù a Londra, dove ha lavorato con Gordon Ramsay, Alain Ducasse ed Hélène Darroze.
Lo stile di cucina è di taglio fusion e, di primo acchito, si sarebbe tentati di dire che sarebbe meno estraneo in una cosmopolita metropoli che in un paese della campagna lombarda. Ma anche qui, a rendere non solo congruente la narrazione ma pure ben centrati gli esiti, è la ‘lezione paterna’.
Sulla materia prima, Davide infatti non transige. E la sua intransigenza è sin quasi compiaciuta, tanto gli ingredienti sono preziosi: il meglio del meglio del meglio, insomma.
Di provenienza italiana, perlopiù. Ma pure estera, se l’eccellenza patria non è abbastanza eccellente. Avrebbe potuto Davide, a questo punto, tentare una scorciatoia: proporre una cucina di pura materia.
Eppure non ci ha proprio pensato, lasciando il campo libero a Menoncin e alla sua spiccata sensibilità, che prende corpo, soprattutto, nell’uso complesso e ammaliante, della speziatura. Non solo come elemento meramente aromatico, capace di spostare il baricentro di un piatto equilibrandolo sulle pungenze piuttosto che sulle rotondità, ma pure gustativo e sin anche tattile.
Così la naturale tendenza dolce dell’elemento ittico (molluschi e crostacei in particolare) viene rimodulata – come, per esempio, nei casi della aragostina marinata al lemongrass e salsa al curry o della tartare di gamberi rossi con gazpacho all’italiana e crumble di Parmigiano Reggiano – dagli elementi al contorno, senza ledere però né la sua integrità né, tantomeno, la sua preziosità.
Un certo estetismo regna nei piatti di Menoncin: il salmone con barbabietola e salsa allo yogurt, pietanza che si distingue per la suadente affumicatura e l’interessante e complesso gioco delle consistenze, ha un fortissimo impatto estetico, nel suo gioco di cromatismi.
Mentre, per citare un altro piatto ancora, il polpo bollito, poi ammollato nella sua acqua di cottura e quindi rosolato, accompagnato da una crema di patate ratte e da una crema di yuzu e topinambur, ben esprime la capacità del cuoco di concentrare i profumi e sapori, orchestrandone una partitura di valore (in questo caso è l’acidità del nipponico agrume a sostenere l’allungo polifonico della pietanza).
E la carne? Sì, c’è anche quella, seppure Menoncin, almeno per il momento, ne centellini la presenza. Ma se vi capitasse la ventura di assaggiare il suo tataki di Fassona (dalla meravigliosa marezzatura che ricorda la carne wagyu, o la migliore ventresca di tonno rosso con funghi enoki e shiitake e salsa teriyaki… beh, allora tornerete da Acqua anche per la terra!