Ci sono tanti bravi cuochi. Ma, fra essi, pochi sono quelli capaci di ‘guardare’ oltre i fuochi della loro cucina e i tavoli della loro sala, presi come sono ad affinare i propri piatti e a governare la propria impresa economica. Eppure al di fuori del ristorante, che non è un microcosmo chiuso in sé, c’è tutto un universo.
Un insieme ipercomplesso che determina tanto i legami fra gli individui quanto i rapporti fra le persone e la natura circostante. Pensare che le scelte e le azioni che si compiono dentro un ristorante non abbiano conseguenze o ripercussioni è quindi sbagliato, perché tout se tien: un cuoco che compia una scelta eticamente ‘giusta’ ne riverbererà la sua positività anche al di fuori.
Al contrario, una azione eticamente ‘sbagliata’ ne rifletterà tutti gli esiti negativi.
Norbert Niederkofler, cuoco assai noto e che non ha bisogno di presentazioni, ha iniziato a riflettere sull’importanza del suo lavoro e delle sue scelte quando ha intrapreso il cammino che lo ha portato a elaborare la filosofia di cucina per la quale è divenuto celebre: Cook the Mountain.
Venendo da una formazione ‘classica’ (scuola alberghiera e quindi tanti anni passati all’estero, in grandi alberghi e ristoranti blasonati, fra Stati Uniti, Svizzera, Austria e Germania: molto importante l’esperienza con il grande Eckart Witzigmann, lo chef che ha portato al massimo successo il Tantris prima e L’Aubergine poi a Monaco di Baviera) Niederkofler, tornato in Alto Adige all’inizio degli anni Novanta e assunta la responsabilità della ristorazione dell’hotel Rosa Alpina (San Cassiano, Badia, Bz) e quindi del St. Hubertus, proponeva una cucina – in linea con lo stile di quei tempi – ove abbondavano ingredienti preziosi (come dimenticare la sua straordinaria variazione di foie gras?) e pesce (come le triglie ripiene con pomodoro al forno, altro piatto che chi scrive ben ricorda), provenienti da tutte le parti del mondo.
Eppure un tarlo rodeva la mente di Niederkofler.
L’amore per la sua terra, la sua passione per i viaggi alla scoperta delle usanze e delle tradizioni di luoghi anche lontani, lo portava a interrogarsi sempre più su cosa avrebbe dovuto essere la cucina, almeno la propria.
«Il St. Hubertus – ricorda Norbert – era conosciuto per avere una clientela internazionale abituata a trovare ovunque il meglio dell’haute cuisine. Eppure mi sembrava assurdo che le persone dovessero venire in Alto Adige per assaggiare qualcosa che avrebbero potuto trovare anche a casa loro. Dopo aver interrogato me stesso, ho iniziato a far domande ai miei clienti per capire cosa poter offrire loro di migliore, e di unico».
La risposta, nel 2010, è arrivata, quasi ovvia, alzando gli occhi e guardandosi intorno: la montagna. L’apparente semplicità della soluzione, però, nascondeva insidie e complessità inaspettate, legate alla qualità e reperibilità dei prodotti alpini, alla loro ristretta stagionalità e, last but not least, ai gusti e alle richieste degli ospiti.
Ci sono voluti anni per portare a compimento il percorso verso un’alta cucina di montagna. Un percorso entusiasmante ed emozionante, ma non scevro di dubbi ed errori, che – anche grazie al sostegno della famiglia Pizzinini, proprietaria del Rosa Alpina – Norbert Niederkofler ha alla fine coronato con Cook the Mountain. Il suo nuovo approccio alla cucina era finalmente chiaro: territorialità delle materie prime, stagionalità, consapevolezza delle antiche tradizioni. Con un fine, neppure troppo recondito: nobilitare l’identità gastronomica dell’Alto Adige.
Ma, come parlare di cucina in un territorio così difficile come sono le valli alpine? Come dare una nuova interpretazione di una secolare tradizione di sussistenza senza snaturarne lo spirito?
Il passo successivo per Niederkofler è quindi stato ‘scoprire’ che si sarebbe potuto ‘cucinare la montagna’ solo a patto di conoscerne a menadito ciò che essa può offrire (in termini di ingredienti coltivati, allevati ma pure raccolti in natura), a patto di saperlo utilizzare («ho iniziato a valorizzare davvero il prodotto quando ho ridotto al minimo gli scarti. Dalle bucce di patate alla pelle del pesce fino all’acqua di cottura delle verdure, tutto può diventare un ingrediente di ricette gourmet»), a patto di saperlo conservare in modo adeguato, a patto di saper stimolare la miglior sinergia possibile, secondo un circolo virtuoso, fra il cuoco e i suoi fornitori.
Quest’ultimi sono anch’essi attori protagonisti: devono partecipare attivamente alla costruzione di questa identità gastronomica. Gli agricoltori e gli allevatori sono infatti «gli artigiani del territorio: sono la loro esperienza e la loro sapienza che ci permettono di avere materie prime pure e perfette. In ogni mio piatto – puntualizza Norbert Niederkofler – cerco di raccontare le mie montagne, la fatica di chi ci lavora, la qualità dei loro prodotti, le tradizioni tramandate, la cura, la costanza e la leggerezza».
Sicché al St. Hubertus, per esempio, è via via scomparso il pesce di mare, sostituito da quello d’acqua dolce: la tartare di coregone accompagnata da un brodo delle sue carcasse al vino Terlano che apre la serie degli antipasti è già di per sé un manifesto di Cook the Mountain.
Nulla del pesce è sprecato: persino le sue squame, rese croccanti, si ritrovano nel piatto. E anche la golosissima anguilla porchettata al lardo (e laccata con soia e lenticchie, alla maniera del Sol Levante) è affiancata da un consommé affumicato preparato con la sua testa e la sua lisca.
È poi l’uso assai sapiente delle erbe e dei piccoli frutti selvatici di montagna a permettere alla cucina di lavorare su molteplici registri aromatici e gustativi, secondo una estetica minimale di impostazione scandinava, sopperendo a tutte quelle materie prime mediterranee il cui uso è stato in pratica bandito.
Persino l’olio non è di oliva ma di vinaccioli, successivamente aromatizzato. Così, per esempio, i ditalini sono di farina di farro in essenza di selvaggina (succo di salmì estratto al torchio e legato con sangue di maiale) con ribes ghiacciato e acetosa.
E il risotto con stracchino e bergna (carne di pecora marinata e stagionata, tipica delle prealpi biellesi) è profumato da un olio di vinaccioli all’aglio selvatico (orsino).
Attorno alla partitura centrale, Niederkofler costruisce poi alcune sapienti ‘variazioni’, ispirate a tecniche e suggestioni di Paesi lontani: i tortelli ripieni di coniglio con radice di cavolo rapa e olio aromatizzato al finocchietto selvatico, per esempio, mimano i ravioli cinesi. Mentre i nervetti di vitello con cavolfiore e cipollotti paiono una pietanza vietnamita.
Ma la filosofia Cook the Mountain – e Norbert Niederkofler ne ha preso piena coscienza solo in fieri – ha messo in moto un meccanismo complesso dal forte impatto socio-culturale. Si riflette, solo per dirne alcune, nello studio e nella messa in opera di pratiche di coltivazione e di allevamento sostenibile e biologico, nel rispetto dei tempi della natura e della biodiversità, nell’attenzione generalizzata a non sprecare o creare rifiuti, nella cura della terra vista come patrimonio e fonte di ispirazione da tramandare alle future generazioni.
Un approccio, quindi, a tutto tondo, fondato sulla responsabilità verso «le risorse naturali che – ricorda Norbert Niederkofler – non sono infinite e che abbiamo il compito di preservare per chi verrà dopo di noi».
In una parola: sostenibilità, ecco il principio-guida. Che è diventato un libro in due tomi (“Cook the mountain”. The nature around you, München, Südwest Verlag, 2020, 2 voll., 396 pp.; 160 pp., 98 euro) il quale, mostrando ciò che si è riuscito a fare in montagna, vuole anche invitare a «compiere scelte analoghe altrove. Cook the Mountain per noi è diventato uno stile di vita, e si può portare avanti solo in montagna. Ma i concetti che lo sorreggono si possono declinare su qualsiasi territorio che è around you».
In un certo senso se Cook the Mountain rappresenta un progetto ormai compiuto, Niederkofler guarda avanti perché il cuoco può essere, a tutti gli effetti, un educatore.
E la cucina, per la forza universale del suo linguaggio, può «catalizzare nuovi processi culturali» tesi alla salvaguardia e alla promozione di modelli di sviluppo sostenibili.
Così, da un lato, il cuoco altoatesino sta dando grande impulso agli appuntamenti organizzati da Care’s – The ethical Chef Days (questo il nome che ha dato al suo think tank, fondato nel 2016), in Alto Adige ma anche a Venezia e a Salina, col fine di diffondere il più possibile, in modo trasversale e non solo fra i suoi colleghi, il concetto del ‘prendersi cura’, anche attraverso la stesura di un chiaro manifesto programmatico: il Care’s Statement.
Dall’altro impegnandosi sempre più nell’attività formativa rivolta ai giovani. Non è una novità che Norbert Niederkofler sia considerato uno dei cuochi che più fanno scuola.
Credendo nel valore dell’esempio personale come eredità da trasmettere ecco che, da molti anni a questa parte, il cuoco altoatesino ha cresciuto una vasta messe di giovani ai quali ha affidato responsabilità vie più grandi, secondo un principio di reciproco scambio: tanto la generazione precedente dà, ma anche tanto riceve in termini di entusiasmo e nuovi stimoli dalle nuove leve.
Sicché assai giovani sono le squadre che lo affiancano.
Il St. Hubertus si è giovato dalle capacità dei suoi executive chef: il bravo Michele Lazzarini prima e ora l’altrettanto bravo Mauro Siega. Come giovane è la squadra della sala, capitanata da Lukas Gerges (capace di gestire con estrema competenza una delle cantine più ricche e vaste d’Italia).
E il discorso non cambia sulle piste di Plan de Corones: sin dagli esordi, nel 2018, a guidare la cucina di Alpinn (un magnifico ristorante-rifugio in quota ove Cook the Mountain è declinato, in modo smagliante, alla portata di molti) è infatti un altro trentenne: Fabio Curreli.
Ma la sfida educativa ora si fa più complessa, perché si sposta dalle cucina alle aule universitarie. Da poco Norbert Niederkofler ha infatti assunto un insegnamento presso l’ateneo di Bolzano. L’epigrafe del corso è assai chiara: Scienze enogastronomiche di montagna.
L’obiettivo è quello di formare esperti capaci di elevare l’alimento a cultura, conferendogli una nuova identità e indagando i rapporti tra produzione, prodotto, territorio e consumo, secondo una innovativa visione multidisciplinare. Con un fine, che è un pensiero, che è un sogno: contribuire alla costruzione di un mondo migliore.
Solo pensieri e solo sogni? No, se si guarda al percorso intrapreso da Niederkofler. Perché il pensiero – scriveva già Platone – «non ha limiti». E perché – potrebbe aggiungerebbe Shakespeare – «tutti noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni…»
[Questo articolo è tratto dal numero di gennaio-febbraio 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]