È nato nel paese degli chef, Felice Lo Basso: Molfetta, alla cui anagrafe sono registrati anche Fabio Pisani, Fabio Abbattista, Antonio Bufi, Mario Porcelli. Forse perché una volta o facevi il marinaio, oppure facevi il cuoco: non erano molte le opportunità di riscatto in quello che oggi è il paradiso del turismo. E di fatto lui è un self-made chef in piena regola: uno che si è fatto da solo, senza capitali familiari alle spalle, facoltosi mecenati o nomi ingombranti fra le righe del cv.
Mamma sarta e casalinga, papà operaio, l’alta ristorazione era un mondo sconosciuto per quel bambino, pur tuttavia attratto dai giochi culinari. A quei tempi l’alberghiero in paese non c’era e bisognava andare fino a Bari: oltre un’ora di treno e tanta pratica, la cartella sulle spalle fino al pomeriggio inoltrato. Poi arrivarono le prime stagioni in Romagna e l’incontro con il maestro di tanti. “In uno di questi alberghi bazzicava Vincenzo Cammerucci, parente dei titolari; chiesi di lavorare con lui e così ho capito cosa fosse la cucina di qualità”. Capostipite di una generazione di cuochi adriatici, chef’s chef quant’altri mai, tanto pragmatico quanto schivo, Cammerucci se lo è portato dietro dal Claridge Bistrot a Lido Lido, ma gli ha chiesto una mano anche al momento di aprire CaMì. “La sua forza? Sa essere un padre carismatico, fare gruppo, motivare i collaboratori. E ha una grandissima conoscenza della materia prima, sia ittica che vegetale. Da figlio di contadini, ricordo che prendeva la macchina e si procacciava roba mai vista, irreperibile; non era uno che si fermasse alle capesante o ai branzini e del pesce usava tutto, dal fegato di rana pescatrice alle uova di seppia”.
Sono seguiti due anni al Byblos di Riccione, locale notturno con ristorazione di qualità. “Poi sono partito per fare un’esperienza diversa in un cinque stelle. E lì si è aperta la mia vita”. Non più spiagge di velluto, ma il bianco disegnato dagli sciatori. All’Alpenroyal inizialmente non c’era neppure un gourmet: aperto nel 2010, dopo pochi mesi già vantava la stella. “Ci ho passato 4 anni indimenticabili: all’Alto Adige devo il rigore e il senso di rispetto, per i collaboratori e per la materia prima. Ma io volevo ancora di più. Così ho ceduto al richiamo di Expo, mi hanno proposto l’Unico e ho traslocato”. Dal 2013 al 2015 è stato il classico rimbalzo prima del lancio dal trampolino: nel giugno 2016 Lo Basso si è spostato in uno dei ristoranti più belli di Milano, Felix al Duomo, con vista sui pinnacoli attorno alla Madonnina. Ma sul curriculum figura un unico stage da Joël Robuchon. “Perché ho sempre dovuto lavorare, anche se vado spesso in Oriente: mi piace il loro stile di vita, oltre alla loro cucina. Taipei, Singapore, ogni scambio rappresenta l’occasione per uscire dal mio mondo. Soffocherei se dovessi restar chiuso nel mio ristorante”.
Di recente però è arrivato il raddoppio, con l’apertura a Trani di Memorie insieme al fratello Antonio, socio e anima del locale. “Lavorava nel calzaturiero, ma ha fatto anche lui qualche stagione in Romagna. Questo mondo gli piaceva, così ha deciso di seguirmi e si è appassionato sempre più al vino. Dopo 3 anni all’Alpenroyal, ne ha trascorsi altri 5 alla Siriola, dividendosi fra l’enoteca, il ristorante stellato e l’albergo. Però voleva tornare a casa e in prima battuta ha aperto un locale di tisane. Nel frattempo anche io ho sentito l’esigenza di dimostrare che a sud si può fare qualcosa di buono, perché non bastano i prodotti, manca ancora il mercato per la ristorazione gourmet. Abbiamo scelto Trani, per il bacino turistico e perché è una località che gira tutto l’anno”.
Una sistematina agli ambienti e il primo marzo è arrivato lo showdown: sono una quarantina di coperti ariosi con la cucina parzialmente a vista e una brigata in gran parte passata per Milano. Il secondo Giuseppe Bocassini, che ha sempre lavorato in zona, soprattutto nella banchettistica, si è spostato per qualche mese al Felix, in modo da assorbire spirito e fumi della cucina; e da lì si sono distaccati altri due cuochi. Mentre la sala è tutta nuova: Antonio funge da maître, restaurant manager e sommelier. Amministra una carta da 350 referenze, in via di rinnovamento verso curiosi sentieri alpini.
L’impegno di Felice è quello di scendere ogni 20 giorni, per organizzare eventi, serate a 4 mani, fornire assistenza sulla cucina, monitorare i prezzi e scovare prodotti. Ben oltre il cambio di menu. “Le materie prime che utilizziamo sono al 95% pugliesi, anche se procacciarsele è più duro che a nord. Perché il meglio è più facile trovarlo a Milano, considerato il potere di acquisto. Il pesce è quello dei nostri pescherecci e, per quanto riguarda i vegetali, non ne esistono di migliori in Italia. L’olio a volta risulta un po’ invasivo su una cucina delicata come la mia, ma si sta affinando sempre più. Ho scelto il denocciolato Muraglia, una garanzia”.
I menu sono due: Nostalgia e ricordi a 55 euro e Passione e intuizione a 70, composti rispettivamente di 5 e 6 portate. Si pongono in continuità con Milano, dove la cucina ha un carattere più aperto e cosmopolita, isolandone la componente mediterranea. Ecco quindi alcuni signature, come la parmigiana in un risotto, il canederlo di gamberi o il chicco cremoso, proposti in porzioni generose. Eleganza, equilibrio, attenzione al dettaglio con qualche sprazzo di genio: la cucina di Lo Basso non cerca mai di stupire, nel suo mix ragionato di freschezza mediterranea e acribia teutonica, che tiene al largo l’errore.
Si comincia con il burro salato della Normandia, autentica provocazione in questa patria dell’olio, utile anche per differenziarsi. “Eppure la gente a tavola lo finisce e lo richiede. A inizio pasto funziona meglio dell’extravergine”. In accompagnamento pane di semola, focaccine pugliesi e grissini integrali. Poi la cucina inizia a viaggiare per la biografia dello chef, dietro la locomotiva del ricordo, andata e ritorno per l’Alto Adige e Milano.
Fra gli appetizer (ma può essere anche un antipasto) risalta riso, patate e cozze, dove i chicchi sono quelli soffiati di un selvaggio canadese e le patate figurano in forma di spuma, più cozze aperte classicamente, pomodorini confit e salicornia. Una destrutturazione gentile incentrata su consistenze contemporanee. Ma ci sono anche la panna cotta al peperone, la cialda di rapa, il marshmallow al parmigiano e olive, l’alice fritta con ricotta forte.
È ottimo l’esordio: un’“insalatina” di gamberi rossi di Gallipoli al naturale con crema di mandorle tostate al latte di mandorla, finocchio crudo e olio franto al finocchio, gelato al riccio, mela verde e caviale. Un caleidoscopio di dolcezze, sapidità, acidità e aromaticità che deposita disegni estemporanei sul palato. Con dedica a Savino Muraglia, da cui arrivano tanto i supporti (l’orcio tagliato a metà) che l’olio al finocchio, ispiratore del piatto.
Mentre omaggia Vincenzo Cammerucci, cultore del binomio, il piatto di canocchie in tartare al naturale, servite con carciofo crudo, maionese di olio di vinaccioli infusionato alla menta e consommé dei carapaci, preparato alla moda di Romagna, poi addizionato di soia e zenzero al momento di filtrare. In equilibrio dolce/amaro, col tannino vegetale sulla polpa ricca. Ancora Emilia Romagna, quale forma per sapori pugliesi, nei tortelli di ragù di moscardini in brodo di polpo.
Dove il cefalopode, icona pugliese, è portato in trionfo. Il ripieno è più o meno una luciana dalla consistenza liscia, il brodo un’estrazione in purezza, con il limone candito a sgrassare, unica punta (smussata) di un piatto rotondo. Ma c’è anche il doppio raviolo, che corre su farce parallele: da una parte l’agnello di Michele Varvara, in forma di ragù classico; dall’altra il pecorino pugliese; per condimento un fondo di agnello, arancia e chips di topinambur. Irresistibilmente comfort.
E poi Milano, citata dalla panatura di un’animella impeccabile, anch’essa targata Varvara, lessata ma ancora succosa, poi fritta e dorata. Tutt’intorno una miscellanea di verdure pugliesi, dalla cima di rapa al cavolfiore, dai chiodini ai cardoncelli. Il meglio che la campagna circostante possa offrire, in equilibrio dolce/amaro. Viene cotto con una parte di acqua di mare, secondo la tecnica dello chef, in modo da esaltare la mineralità naturale.
Ma c’è posto anche per la tradizione pura (o quasi): vedi la pignata, che ripesca la cottura nel coccio dei fagioli, alla maniera delle nonne di Puglia, senza abiurare l’eleganza della casa. Il brodo infatti non è solo di legumi, ma anche di gallinella e ad arricchire il piatto è un filetto arrostito dello stesso pesce, per il classico binomio italiano di mare e legumi. Chiude l’After eight, dessert che contempera l’abbraccio calorico e la freschezza a fine pasto, con l’aromaticità di un commiato balsamico. Si compone di ganache di cioccolato al 75%, gelato alla menta e perle di meringa che variano le consistenze.
MEMORIE
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Trani (BT)
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