Dietro le mura cinquecentesche della residenza del marchese Giulio Romanazzi Carducci, nel centro storico di Putignano, somiglia a un viceré della nuova cucina pugliese Angelo Sabatelli, autorevole, aristocratico, bianco come le pietre dei palazzi e delle chiese. È davvero un ristorante bellissimo, quello su cui nel maggio 2017 ha issato l’insegna dorata delle Soste: ospitato sotto i soffitti a volte di quelle che furono le scuderie, con il camino sul fondo, brilla di chianca e pietre vive, che fanno risaltare la modernità delle luminarie, geometriche e affatto casuali. Più raccolto della pur bella masseria di Monopoli, pare ritagliato su misura per un grande talento, di cui rispecchia inside out l’identità territoriale e l’eleganza innata nel gioco di sfumature avorio, linee e volumi. Finalmente casa.
Angelo Sabatelli infatti non è un cuoco qualunque: è un solista, prima che il numero uno indiscusso della cucina pugliese, un numero primo, irriducibile ad altre unità di misura. Come un Ulisse del Tavoliere, è partito proprio da Monopoli, dove è nato, e dopo l’alberghiero si è fatto letteralmente da sé, senza sottostare ad alcun magistero forte. Sei anni li ha trascorsi a Roma, in locali non particolarmente glamour, come Il Piacere e Giacomo, prima di conquistare la stella Michelin al Convivio. Sfornava piatti come le polpette alla trippa con astice, fave e pecorino o le orecchie di maiale ripiene di animelle. Qualcuno mugugnava: “troppo avanti”, “una cucina che non si può fare qua”. Eppure fioccavano le imitazioni. E ci scapparono pure i primi fegati di rana pescatrice della ristorazione italiana, sul modello del foie gras, inizialmente un dono del pescivendolo, che non sapeva che farne.
Ma Ulisse deve viaggiare. Ed è stato il desiderio di autonomia a spingere Sabatelli sul vascello per l’Asia, dove professionalmente parlando ha trovato se stesso, mentre inseguiva le sirene di sapori ignoti. Sono stati 12 anni di 5 stelle lusso, a Jakarta e Hong Kong, Shangai e infine a Mauritius. “E nel frattempo ho visitato altri Paesi. Facevo cucina italiana, ma uscivo spesso per assaggiare i loro piatti e mi sono abituato a quei gusti. Lì per lì non avevo necessità di cucinarli o di utilizzare ingredienti esotici, ma al rientro non ho trovato nessun ristorante asiatico valido, così ho cominciato a cimentarmi per la mia famiglia e ho constatato che usavo quei prodotti con naturalezza, come se fossero miei da sempre, anche per valorizzare altre preparazioni. Se ad esempio avevo bisogno di una sapidità complessa c’era il miso, per un’acidità particolare la salsa ponzu. Ma li ho sempre impiegati con cognizione di causa, mai a caso. Senza mescolare, perché non faccio cucina fusion. Il mio ramen di piccione non ha nulla di asiatico, è tutto locale. I tocchi esotici mi servono per precisare il gusto e rielaborare la tradizione in modo originale”.
L’impronta è di stampo cinese, ma il risultato ricorda maggiormente il Giappone per freschezza e leggerezza, purismo e brevità, grazie all’instancabile lavoro in sottrazione.
Si direbbe che Angelo Sabatelli dipinga le sue porcellane con il pennello frugale dell’estetica zen, combinando il minor numero possibile di elementi come il pittore ispirato nelle composizioni su seta. Sono i piccoli miracoli di un cuoco la cui maturità è sicurezza, devoto alla teologia dell’eleganza e alla liturgia di sfumature talvolta subliminali, nonché al culto di un dettaglio che risulta sempre cruciale. La sua è una semplicità a tratti disarmante, che quadretta l’Asia entro le coordinate atemporali del classico, dove tutto è liscio, disadorno, essenziale. “Subtle”, come ama dire lo chef.
“Credo fermamente che fra la cucina italiana e quella giapponese sussista un’affinità profonda, nell’egemonia del prodotto e nella pulizia gustativa. Ma voglio che la mia resti una proposta contemporanea e contestualizzata”, rivendica. Lo garantisce anche la spesa, compiuta di persona ogni giorno, talvolta anche due volte in quantitativi quasi casalinghi, all’interno di un triangolo che ha per vertici Monopoli, Polignano e Putignano. “Preferisco servire una materia fresca, per massimizzare il gusto e per abbattere gli sprechi, usando sottovuoto e abbattitore solo se indispensabili. Ma non mi faccio mancare niente: fra i bovini prediligo la pezzata rossa friulana, quando non trovo il capretto pugliese uso l’agnello irlandese o scozzese, mentre il piccione è francese, perché più delicato, tenero, saporito e delle giuste dimensioni”.
Anche l’ispirazione arriva spesso dal territorio, nel rispetto del gusto originario, vedi le celebrate orecchiette al ragù + 30 (cioè cotto oltre 30 ore) e fonduta di canestrato, piatto comfort ma impeccabile, o l’acquasale, sorta di panzanella pugliese. Né manca qualche signature, come l’imitatissima lasagnetta di seppia con allievo, mandorla e limone, sublime asintoto della pasticceria dalla leggiadria elusiva; le ostriche con fave e cicoria; il pancotto in forma di zolla di pane imbevuto e infornato, guarnito con le polveri degli ortaggi disidratati. Il 70% della carta però si compone di new entries. “Altrimenti mi sembrerebbe di avere le manette”.
Nel trasloco da Monopoli a Putignano la domanda è cambiata: più carne e meno pesce, ma non solo. Al posto del degustazione di mare riscuote un successo crescente quello vegetariano. “Ed è un lavoro che mi ha stupito e stimolato, entusiasmante sui carciofi. Era già implicito nella melanzana, ma si è sviluppato ulteriormente attraverso l’impiego di salamoie calibrate che consentono di servire un prodotto in purezza, che si cucina praticamente da solo, senza alcuna aggiunta se non la glassa finale. Prendiamo una rapa: magari un giorno la cucino in un modo, il giorno dopo in un altro, perché il prodotto può cambiare, può aver preso freddo o altro. Ed è una lezione che ho appreso in Asia, dove spesso mancavano ingredienti idonei, quindi mi dovevo ingegnare. A Jakarta facevo prove su prove, finché il risultato non era giusto”. Costa 70 euro, mentre I classici con le loro 8 corse ne vengono 100 e le 10 Emozioni extraterritoriali, a mano libera “tra tradizione e innovazione”, 120. La carta dei vini è ulteriormente cresciuta sullo zoccolo di Monopoli, superando le 1000 referenze, con un 30% di Puglia e cospicue iniezioni francesi, senza esclusivismi per assecondare il gusto ecumenico. È ospitata nel suggestivo ventre del palazzo, presto attrezzato per le degustazioni. A guidare la sala, come sempre, la professionalità di Laura Giannuzzi, compagna nella vita e sul lavoro, talvolta coadiuvata dalla figlia Simona.
Dopo il fuoco di fila degli appetizer (l’ormai classico datterino di pappa al pomodoro glassato alla gelatina colorata di basilico; la sfera di melanzana glassata al formaggio con polvere di pesto, modello parmigiana; il lampascione fritto come un carciofo alla giudia in miniatura, appena ingentilito dal vincotto; l’ariosa meringa di farinella di ceci, tipicità di Putignano; l’intensa tartelletta di grano arso con ricotta forte e pomodoro arrosto fra gli altri), di ispirazione perlopiù territoriale, sono implacabili gli antipasti, forse la portata più congeniale allo chef. È tanto disarmante quanto centrata, per cominciare, la semplicità degli scampi sul ghiaccio, sulla falsariga dei celebri crostacei “al ghiaccio”, dove la coda in tartare è adagiata su un uovo gelato, che ritma i tempi della degustazione, appena spolverizzata di kefir lime e yuzu per un’acidità sottile.
Mentre la testa si staglia dietro, bollita, a ricalcare la ricetta originale. “Lo definirei un piatto provocazione, dove ho invertito i ruoli codificati, cercando di restare fedele al modello”.
Significa chaud-froid e un purismo/crudismo tutto pugliese, senza ombra di grassi, scassinato per così dire dall’interno.
L’acquasale, presentata in forma di sfera a partire dagli ingredienti di sempre, con gamberi crudi, gel di pomodoro e cetriolo, olio nero e in polvere, viene talvolta affiancata allo scampo in tempura al furikake, mix di scarti vegetali, avanzi di pesce e semi, utilizzato come condimento secco in Giappone. Sabatelli lo rielabora spezzettando cialde di riso al pomodoro, agli spinaci e alla barbabietola, più sesamo, fiocchi di katsuobushi e qualche punta lubrificante di maionese agli agrumi.
Ne risulta un gioco di specchi fra caldo e freddo, presente e passato, qui e altrove.
Non è da meno la capasanta, ingrediente extra territoriale per antonomasia, quasi una provocazione volta a sconfessare i dogmi paralizzanti del chilometro zero. La noce scottata viene servita nella sua conchiglia, guarnita di perle di tapioca cotte in brodo di alghe, prima della tartare condita con battuto di ananas al sale, marinato come un citron confit nordafricano, limone nero e foglie di capperi per il classico binomio della cucina di mare. Infine il brodo, da sorbire nella conchiglia, preparato come un jus con lische di pesce tostate, sakè e zenzero, che ripulisce il palato.
I primi sono più comfort e italiani, vedi le orecchiette già citate o il risotto con purè di zucca, tartufo nero ed erborinato di Altamura, dalla geometria classicista.
Ma i secondi ripartono in viaggio. Ci sono le costolette di agnello con crosta di ‘nduia (sul modello del burro e pane francese) e cime di rapa; ma c’è anche il sontuoso ramen, con il petto rosato e scaloppato, le vongole per l’elemento marino di una ricetta totale, i troccoli pugliesi e un brodo di estrazione di piccione con cannella, anice stellato e zenzero, passato per 20 minuti di pentola a pressione. A fianco, per la sostanza, la coscetta panata e fritta, glassata con miele e soia. Forse l’unica nota straniera di un esotismo ricontestualizzato.
Dopo l’intramontabile bonbon di cioccolato amaro, liquore al carciofo e lampascioni, che resetta amaramente il palato, scivola come una carezza, morbida e rassicurate, la tatin di sfoglie di mela arrotolate a forma di cilindro e cotte al caramello, senza burro; i dischi che se ne ricavano sono serviti con crumble, gelato alla vaniglia e salsa al cioccolato bianco.