Il cerchio è la figura geometrica perfetta per eccellenza, senza inizio né fine. Eugenio Boer è un perfezionista nato di vocazione luterana, e l’ha scelta come biglietto da visita per rappresentare se stesso attraverso otto suggestioni disposte in modo circolare. Non è un menu, è una proposta che trasmette senso di compiutezza, ma anche di ciclicità, come le stagioni, della natura e della vita. Temi che Eugenio Boer esplora senza soluzione di continuità perché la sua è dichiaratamente una cucina concettuale, ma fortunatamente mai concettuosa. Per ripartire ha scelto una via discosta dal centro di Milano, lontana dai bagni di folla, una sobria stanza pensata all’unisono con l’architetto Mario Abruzzese e un nome che si pronuncia in modo inequivoco: Buur, con due puntini non sulle “i” ma dopo la “u”. In queste poche righe si potrebbe condensare l’essenza di Eugenio Boer, che ci vorrà scusare per l’improvvido gioco di parole. Sì, perché dopo la breve parentesi di Enocratia (uno strano luogo con un menu à-reverse, padrone il vino e servo il cibo), Eugenio è approdato a Essenza: quattro anni, la meritata stella Michelin e dopo quindici giorni l’annuncio che la proprietà avrebbe fatto a meno dell’alta cucina e, quindi, del suo chef neo-gallonato.
Digerita l’amarezza, si è concesso uno stage da Alain Ducasse per ricordarsi (si fa per dire) dove risiedono i fondamentali ed è subito ripartito. Da un piccolo ristorante ravvivato da tinte bianco-azzurre che ricordano le ceramiche di Delft e una proposta culinaria priva di carta che descrive senza filtri la sua persona, con garbo, senza egocentrismi. Del resto, lo sapeva già: persona più importante della sua vita è se stesso, perché non estrinsecarla totalmente? A 40 anni Eugenio ha realizzato il suo sogno, aprire un ristorante proprio, che lo rappresenta fin dal nome stampato sulla porta d’ingresso. “Questo sono io, senza filtri e senza competizione con gli altri”. Difficile avere dubbi. La cucina di Eugenio Boer, per quanto possano essere utili le definizioni, è neoclassica, eppure totalmente personale. E’ la cucina di un apolide (il padre è olandese, la madre siculo-ligure) che ha visto la tradizione con gli occhi e con l’intelligenza emotiva l’ha rielaborata, al bivio tra ricordo ed esperienza. Si porta alcuni classici da Essenza: le “bitterballen”, una versione nordica delle polpette al less che colpiscono l’immaginazione dei bimbi olandesi perché venduti in astucci colorati anche ai distributori automatici, il macaron di ganache di cuore e fegato di piccione; l’uovo caduto nel prato e il ragù di polpo; il risotto alla cenere con salmerino di montagna e le sue uova in omaggio al maestro Norbert Niederkofler, il piccione in tre cotture e salsa gravy che rende omaggio l’altro grande maestro Gaetano Trovato. Un’asse Francia – Olanda che occasionalmente sceglie la via tortuosa di Ventimiglia.
I “classici” risiedono nel fondo della figura circolare, come fossero le fondamenta. A risalire verso la cima si incontrano le altre “suggestioni” non prive di aspirazione metafisica. Sono veri e propri temi, alcuni immediati, come “il mare” (va da sé), “think green” (scelta veg) e “il viaggio” (foto a sinistra) (cartoline e impressioni dai vari pellegrinaggi in giro per il mondo). Quasi immediato “cuisine du marchè”, che ricorda Bocuse ma solo per assonanza: qui Boer (stranamente) non mette alla prova la nostra cultura gastronomica, ma si diverte con i prodotti di giornata. Le sinapsi, invece, si allertano dinanzi a “waste don’t waste” e a “Taverna Santopalato”: cosa saranno mai? Qui, per il cliente meno smaliziato, soccorrono le didascalie dell’ottimo maitre Simone Dimitri, ex Mandarin Bistrot. Il primo è un inno all’ecosostenibilità e alla riduzione degli sprechi, giacchè viviamo ormai nella consapevolezza che i nostri figli non godranno delle stesse risorse dei loro padri. Il secondo è un omaggio a un luogo mitologico torinese, dove si elaborò la cucina futurista, che doveva trasmettere la stessa velocità di una tela di Boccioni: Boer reinventa il pollo Fiat, con la sua pelle soffiata e cosparsa d’argento, la coscia fritta, un finto zabaione acidulo e una polvere al pomodoro.
Alla sommità c’è la storia e l’ispirazione, unita forse all’aspirazione. E’ dedicata nientemeno che a “Nino Bergese” e interpreta in chiave “pop” la storia del Re dei Cuochi, colui il quale portò la grande cucina italiana fuori dai palazzi. Da questo set si distinguono per luminosità un sontuoso risotto bianco finito con un fondo bruno disposto ad anello circolare e la costoletta di agnello “alla Villeroy”, sfilacciata e speziata, fritta in una polpetta e accompagnata da una salsa alla liquirizia. Costruzioni contemporanee filtrate dai dettami della cucina classica, tenendo a mente le parole del grande chef de La Santa: “sgrassare e schiumare, non stancarsi mai di sgrassare e schiumare fondi e sughi”. Un mantra che conduce fino ai dessert, delicatissimi, con l’ennesimo omaggio, nientemeno che al pittore Lucio Fontana: una panna cotta squarciata da un rapido taglio di coltello, sotto fragole all’aceto e radicchio rosso.
“Sono stato un globetrotter, accolto dall’Olanda, dalla Liguria, dalla Sicilia, dalla Germania, dalla Francia e infine da Milano dove rimarrò a lungo. Oggi sono il prodotto della mia esperienza e la mia cucina è lo specchio del mondo che vivo e ho vissuto, filtrato attraverso il mio sguardo. Una vera cucina “contemporanea”. Tuttavia, credo che le definizioni siano relative. Ciò che veramente mi sta a cuore è che sia una cucina “buona”, nel senso di “fatta bene”. Sono convinto che il buono e il bello non siano soggettivi, bensì oggettivi, e nella costruzione del “buono” sono debitore alla grande scuola francese, insuperata per tecnica e disciplina”.
Eugenio Boer, dunque, porta a Milano la “buona cucina contemporanea”. Una sfida difficile, dalla quale uscirà probabilmente vincitore. Intanto, noi ci lasciamo suggestionare con grande piacere, attendendo le creazioni future dell’Olandese Volante.
RISTORANTE BU:R
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