Qualcuno dice che “il diavolo sta nei dettagli”, dimenticandosi che il suo contraltare “Dio sta nei dettagli” è un detto molto più antico e definisce meglio il concetto. Infatti, se è vero che le insidie si annidano nelle cose piccole come i granelli di polvere che minano l’efficienza degli ingranaggi, è altrettanto noto che sono le sfumature a contribuire alla perfezione. In ogni caso, è più probabile che Antonio Guida guardi al divino che al maligno: la sua è una “cucina del dettaglio” che aspira alla bellezza delle forme, della rotondità, del gusto in una prospettiva decisamente neoclassica, quasi apollinea. Non è chiaro fino in fondo quali siano i “dettagli” che l’hanno portato ai vertici della scena nazionale. Le origini salentine hanno portato in dono l’eccezionale capacità di valorizzare al massimo ingredienti mediterranei baciati dal sole, il percorso d’eccellenza in grandi cucine ha contribuito all’acquisizione di una padronanza tecnica assoluta. Fin qui, tuttavia, la sua biografia è comune a quella di altri illustri colleghi. Qual è il segreto, allora, dell’attenzione spasmodica al dettaglio? Forse la contiguità protratta con lo scienziato dei fornelli Pierre Gagnaire, presso il quale ha ricoperto pressoché tutti i ruoli, non da ultimo quello quasi inedito –alle nostre latitudini- di “saucier”? Se così fosse, potremmo dire “il Diavolo (o Dio) è nella salsa”.
Antonio Guida nasce a Depressa, frazione di Tricase, e nel suo bagaglio culturale porta gli inconfondibili profumi vegetali della Puglia. Inizia a fare il cuoco per fascinazione casalinga, la mamma fa la pasta fresca tutti i giorni, come se non ci fosse distinzione tra momenti di lavoro e di festa. Così, quel lavoro sembra già un hobby. Poi, gli apprendistati nelle navi da crociera, alla corte di Pinchiorri prima e di Iaccarino poi, e un lungo decisivo periodo da Gagnaire, che gli fornisce l’assist vincente per entrare direttamente al Pellicano di Porto Ercole come executive chef. Dodici anni di successi, due stelle Michelin e, infine, la chiamata del Mandarin Oriental, lussuosissimo albergo nella porzione di centro più lussuosa di Milano, a pochi metri dal Quadrilatero della Moda. Al Seta si porta l’intera brigata, compresi gli indispensabili Federico Dell’Omarino e Nicola Di Lena (foto a lato), rispettivamente sous-chef e pastry-chef, e riconquista rapidamente le due stelle. Il suo percorso è intimamente coerente con l’evoluzione del capoluogo lombardo, popolato da una clientela sempre più esigente. “Adoro questa città, così varia di persone, occasioni e stimoli. Milano mi ha adottato, e io cerco di ricompensarla con il massimo sforzo”. Le suggestioni lombarde sono state immediatamente recepite in piatti già diventati classici: i ravioli farciti con cassoeula e ostriche e l’ormai celeberrimo riso in cagnone con verdure, maccagno e polvere di lampone, praticamente un compendio dell’arte culinaria di Guida. “Amo i sapori rotondi, con acidità non troppo spinte e comunque distinguibili. L’acidità la ricavo dagli agrumi, dallo yuzu, dal rabarbaro o, appunto, dal lampone che mi piace moltissimo”. Questa lussuosa affidabilità, questi sapori intriganti e mai invadenti sono ormai apprezzatissimi in città da una vasta clientela anche abituale. “Ho clienti che vengono a cena anche più volte al mese. Oltre a gratificarmi, mi impongono nuove sfide: non posso proporgli sempre gli stessi piatti, si annoierebbero. Così, sono costretto a reinventarmi sempre. Con piacere, s’intende”.
Oggi, il cliente del Seta può scegliere tra due percorsi di degustazione: “la via della seta” che comprende i classici e un menu più breve legato alla stagione. Oltre, beninteso, alla carte che cambia frequentemente. I nostalgici del periodo maremmano possono ancora chiedere, magari non facendo troppo rumore, il risotto al nero di seppia con crema di curcuma e calamaretti spillo, ma il best-seller del momento è il risotto alle erbe con acetosella, patate e ostriche. L’ostrica è un ingrediente che Guida ama molto, sia come comprimario che come protagonista: tra i classici la ritroviamo cotta, con patate, peperoni friggitelli e una salsa allo champagne che rivela la maestria del “saucier” di cui si accennava in premessa. Un altro classico imperdibile, apprezzato dalle guide di tutto il mondo è il pollo ficatum, servito abitualmente con crema di cannellini alle alghe, fregola e garusoli e talvolta con la variante della salsa di alghe e burgul mantecato come fosse un risotto: le carni provengono dall’allevamento Moncucco di Massimo Greppi nel vercellese che utilizza antichi metodi di ingrasso e finisce la nutrizione dei volatili con fichi secchi macinati. L’autunno, tuttavia, è forse la stagione più interessante per il repertorio di Guida, grande conoscitore della selvaggina. Un evergreen sin dai tempi del Pellicano è la lepre a-la-royàle, che è come dire il “volo del calabrone” del cuoco virtuoso. La preparazione richiede quattro giorni tra marinatura e preparazione, la salsa al cioccolato, ottenuta dopo lunga decantazione, è opulenta, ricorda quel che disse la rosa al Piccolo Principe: “È il tempo che dedichi alla rosa che fa bella la rosa”.
Un autografo di mediterraneità è la ruota pazza di Cavalieri apposta in duplice esemplare sulla sommità, insieme al cavolino di Bruxelles: sempre nell’ottica dell’attenzione al particolare. Tuttavia, se la royale è il grande classico, il nuovo menu di selvaggina potrebbe una specie di libro dei sogni per gli amanti del genere: chartreuse di pernice con scalogno brasato e lampone disidratato; royale di fagiano con porcini e salsa di ortiche; risotto all’anice stellato, cavolo nero e succo di lepre; zuppa di colombaccio, raviolini e lenticchie; pernice farcita con fegato grasso, canolicchi e tartufo; filetto di lepre con coscia in salmì e stracciatella. Un desco di nobiltà pura, che valorizza solo materie prime pregiatissime come si faceva alla corte di Luigi XIV.
Parafrasando Nino Bergese, potremmo dire che Antonio Guida è “cuoco da re”. Non è un caso che oggi sia al comando di una macchina perfetta nella città che oggi in Italia corre a una velocità diversa.
SETA
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