Nel segno di marchesi
Milano più che mai, da almeno 30 anni. Si fatica a immaginare un packaging diverso per il motore della cucina italiana, fra lo squarcio dei grattacieli delle Varesine e il melting pot che si rovescia per le strade, lo sprint degli indici di borsa e quello delle fuoriserie; più che mai dopo Expo, palestra per le contaminazioni globali. Daniel Canzian vi è arrivato in tempi non sospetti per cucinare un certo sentiment cittadino, fatto di continenza ed eleganza, forma e rigore. Nel filone del milanesissimo Gualtiero Marchesi, di cui è uno degli allievi più fedeli.
Era l’ottobre del 2013 quando ha inaugurato il suo Daniel, il leggio del menu sul marciapiede di via Castelfidardo, ai piedi di una palazzina liberty. Dove un tempo si ballava e si bevevano drink, l’infilata luminosa dei tavoli con i loro 60 coperti; sulla destra, subito dopo l’ingresso, l’apertura della cucina a vista, priva di qualsiasi barriera, fosse pure un vetro divisorio. E la barra, come in un sushi bar, richiestissima soprattutto a mezzogiorno da uomini d’affari e ragazzi della porta accanto, accuditi da giovani camerieri in gilet. Il posto giusto per mettersi alla prova anche imprenditorialmente. Con il Maestro, più che un addio un arrivederci, dopo 8 anni di collaborazione ininterrotta.
Era iniziata a Erbusco, tappa di un percorso passato per il ristorante di famiglia a Conegliano Veneto, l’alberghiero, il battesimo gourmet al Tivoli di Cortina d’Ampezzo e il Dolada di Enzo De Prà. “Era il 2004 e a Berton stava subentrando Molteni, con cui ho girato tutte le partite. Poi nel 2008 ho avuto l’opportunità di passare al Marchesino, prima come secondo, poi come chef. E si sono innescati una serie di meccanismi meravigliosi, che mi hanno catapultato nuovamente a Erbusco, ma da executive”.
“La cosa bella è che con te mi capisco al volo: tu e Paolo Lopriore siete i cuochi con cui ho lavorato meglio. Tanto che i tuoi piatti li riconoscerei a occhi chiusi, per la matericità e per lo stile”, dice Marchesi, che con Canzian ha messo a punto classici d’oggi come il gulasch di tonno: suo lo spunto del tonno alla cipolla, poi centrato nella speziatura e nella cottura in tataki. Una fusione di orizzonti che prosegue nel nuovo ristorante, dove Marchesi si ferma spesso a mangiare per uno scambio di idee, incalzato dalla richiesta di stimoli e consigli. Ed è stato sempre lui a mettere in contatto Canzian con i Troisgros, accompagnandolo personalmente a Roanne nel “giorno più bello della mia vita”. Dopo di che sono venute le cene a 4 mani presso la Maison di Tokyo, utili per familiarizzare con la cucina orientale; i proficui scambi con Michel e César, tanto che il loro champagne campeggia in carta in esclusiva per l’Italia.
Il gusto marchesiano, fatto di pulizia e di separazione fra gli elementi sul piatto, vibra così di una diversa acidità dall’inizio alla fine del pasto. Ma Canzian procede anche per attualizzazioni, ad esempio ampliando il raggio delle contaminazioni dal Giappone all’America Latina e all’Oriente in generale, grazie all’effetto Expo, e facendosi carico di intolleranze e idiosincrasie alimentari, con una costruzione relativamente personalizzabile del piatto (vedi la limitazione dei latticini). Del Maestro permangono il metodo della sottrazione, la ricerca della massima semplicità e linearità compositiva; anche i voli pittorialistici, come nel caso dei dessert ispirati ad Arnaldo Pomodoro. A tutti gli effetti una nuova nouvelle cuisine incardinata sugli assi del mercato, della stagionalità e dell’italianità.
Il menu del mercato e dintorni
I menu degustazione, disponibili la sera, sono due: A tutto tondo, con 4 portate a 50 euro, e Impressioni di stagione, che ne conta 6 a 70 euro, 100 con l’abbinamento di altrettanti calici. Mentre la formula del pranzo è concepita per non appesantire chi lavora e valorizzare la freschezza del mercato attraverso piatti semplici e diretti che cambiano ogni giorno, talvolta ispirati alle usanze familiari della città, come gli gnocchi il giovedì, magari di zucca o ripieni, per un prezzo che oscilla fra 18 e 25 euro.
Nascono spesso al vicino mercato di San Marco, dove Canzian si reca per acquistare pesci e vegetali, sulle orme dei Troisgros che a Roanne sfilano fra i banchetti ogni venerdì mattina.
Ma nelle celle ci sono anche le verdure di Terra Madre, raccolte nel circondario lombardo, i pesci di un fornitore ligure e le carni della macelleria l’Annunciata. Materie selezionante per la qualità e non per lo status, “perché voglio fare una cucina semplice e preferisco avere in carta un grande pesce azzurro rispetto a un astice, con i problemi di reperibilità e di prezzi che comporterebbe”. In accompagnamento ci sono le 150 bottiglie selezionate da Simone Marelli, che dopo il Marchesino è cresciuto professionalmente a Londra.
Perennemente in fieri, si vanno orientando sempre più verso piccole cantine, biodinamici e naturali, con la massima disponibilità verso il diritto di tappo. Nel cestino grissini nature, al curry e alla paprica, focaccia, pane al burro e integrale.
Dopo gli appetizer, fra cui il curioso grissino farcito e fritto, arriva in stagione il carciofo alla giudia scavato, riempito di mousse di pecorino, gambo e mentuccia, poi gratinato. Nel filone delle rivisitazioni marchesiane. Seguono primi di rango. Il risotto (quasi) alla Parmigiana, portato a cottura nel brodo di gallina affumicato al tè nero, mantecato al burro acido e spolverizzato di paprica affumicata, tè nero e curry di Madras, per cominciare. Dove la nuova miscela speziata dello chef, esaltata dalla grassezza del riso, sta a rappresentare il messaggio di Expo: la reunion dei diversi continenti su basi italiane. Oppure quello mantecato con limone in salamoia e succo di limone, insaporito e ingrassato dal sugo d’arrosto, ricco, tostato, caramellato, con la liquirizia in fondo per ripulire il palato.
Il piatto firma di Canzian però è lo straordinario minestrone, sempre presente in carta, la cui composizione varia secondo la stagione. Ci sono gli ortaggi del momento saltati all’extravergine, con una robusta aggiunta di cavoli e legumi all’arrivo del freddo, la cipolla lasciata struggere fino a disfarsi in dolcezza, foglioline di sedano per la fragranza e un amaro leggero; soprattutto non manca mai l’acqua di pomodoro, al top nel mese di settembre grazie all’ultima raccolta, che con la sua acidità provoca l’effetto intermezzo, resettando il palato. “Il desiderio di riproporre il minestrone mi è venuto ascoltando Marchesi, che ricordava verdure croccanti mangiate in Spagna. Cercavo la chiave e ad aiutarmi è stato Michel Troisgros con la sua ricetta di eau de tomate, da usare al posto del brodo. Poi ha voluto assaggiarlo e gli è piaciuto”.
Fra i secondi lo sgombro in tempura di quinoa soffiata con salsa agrodolce di stampo marchesiano, per un crunch particolare e globale, e il galletto in crosta di arachidi con salsa “all’italiana”, una portoghese profumata al basilico e non al dragoncello, con contorno di stagione e cremino di insalata russa. Dove le basi classiche sfumano in sensazioni impreviste di cacciatora e ketchup su un nocciolato assai pop. Soprattutto il rognoncino spadellato intero ma senza grasso, glassato con fondo di vitello alla senape e servito a lobi ben rosati con i porcini trifolati alla melissa.
Il dessert è un altro piatto firma. Si tratta della sfera Arnaldo Pomodoro, scultore prediletto di Marchesi, che ne ha descritto le meraviglie a Canzian. Ecco quindi la palla metallizzata di cioccolato fondente con le due metà socchiuse, intercalate da dischi per creare profondità e farcite di quinoa caramellata e composta di mango o marron glacé, che al tavolo si sciolgono leggermente sotto un fiotto di brodo di maracuja, ennesimo ricordo latino.