Ho incontrato lo chef Giandomenico Caprioli questa estate durante un suo viaggio in Italia. L’avevo conosciuto molti anni fa al Grand Hotel Des Bains di Riccione nella brigata di Gino Angelini. Ora conduce ben 8 attività ristorative e commerciali legate al cibo di qualità italiano a Hong Kong.
La storia della sua vita è molto singolare, avventurosa, sembra la sceneggiatura di un film.
Giandomenico Caprioli nasce in una piccola fattoria del sud Italia, a Lavello (Potenza) da una famiglia di cuochi. Rosso e con gli occhi azzurri, subisce un bullismo al contrario da parte dei coetanei. Così cresce imparando bene ’a far spallate’: minore di tre fratelli e sesto di 7, ha presto appreso l’arte della sopravvivenza, che tanto gli servirà anche in seguito. Ma impara anche ad amare la campagna e i prodotti delle stagioni seguendo il padre nei campi, impiegato con la passione dell’agricoltura.
“Sapevo tutto: quando bisognava raccogliere i pomodori per fare i migliori pelati in bottiglia, dove cercare l’origano spontaneo che ha un sapore così diverso rispetto a quello coltivato, come andare a castagne, allevare polli e conigli, stufare i peperoni, fare la pasta a mano, raccogliere le olive. La cucina era una passione di famiglia”.
Nel settore entra prestissimo. “Ero minorenne quando, a 13 anni, decisi di raggiungere mio fratello che aveva aperto una rosticceria a Rimini. Per lui svolgevo tutte le operazioni preparatorie: bruciacchiavo i polli per levarne le piume, pelavo le patate e controllavo che nessuno rubasse niente. In qualche mese ho introitato buona parte di quel patrimonio di regole dell’ospitalità che solo la Romagna può insegnare. Ci trasferimmo tutti a Rimini”.
A 14 anni arriva il primo libretto di lavoro, ma è da Gino Angelini che inizia a 17 anni con uno stage, per imparare bene il mestiere. Angelini lo mette alla prova, capisce che merita, non lo cede ad altri e lo tiene con sé. Rimane a Riccione al Grand Hotel Des Bains quasi 3 anni. Grazie alla creatività, alla sensibilità e all’aiuto del maestro cresce e si forma. Ricorda fughe sulla spiaggia, tuffi veloci e poi di corsa in cucina.
In quel periodo lo chiamavano Gianni il Rosso, Roscio, Lucifero. Diventa un mito per tutti, nell’ambiente dei cuochi, quando in riviera trova una paletta dei carabinieri, se ne impossessa e la usa per passare avanti, nelle strade affollate, fra consegne e ritiri: la necessità aguzza l’ingegno, a volte in modo non proprio ortodosso.
Giandomenico Caprioli: una testa calda
Poi Gino vola negli Stati Uniti da Mauro Vincenti, patron del famoso Rex di Los Angeles, per prendere in mano le redini della cucina e Gianni, il Rosso, lo segue a ruota. Mauro lo accoglie e capisce che il ragazzo, a 20 anni appena compiuti, non ha solo un talento per la cucina: “Ammettiamolo, sapevo menare le mani. Non attaccavo briga mai per primo, ma non mi tiravo indietro se c’era da rispondere”.
Racconta un’avventura che sembra uscita da un film di Sergio Leone. Prova a entrare negli Stati Uniti senza visto scavalcando il cancello di cinta dell’immigrazione, in Messico.
“Correvo correvo, mi sono ferito a una gamba. C’era un autista ad aspettarmi al McDonald’s di San Diego che mi doveva mettere un timbro clandestino sul passaporto. Era il 16 febbraio 1996; raccontai, alla polizia che mi arrestò, che stavo scappando da una rapina. Mi ammanettarono, già ero stato in galera a causa di una rissa e non avevo paura. Avevo 22 anni e non sentivo neppure dolore…”. Lo rinchiudono con i portoricani che vogliono derubarlo. Scoppia l’ennesima rissa e viene messo in isolamento.
“Dopo tre giorni ho potuto telefonare a Mauro Vincenti che mi fa uscire. Ero al Rex, ma lavoravo per un progetto di ristoranti da avviare: i Louise’s Trattorie.”
E chi mandavano nei posti dove c’era un po’ di challenge? Lui: il Roscio, Lucifero, che arriva a Philadelphia, Washington D.C., Pasadena, Santa Clarita…
Nel 2000 torna in Italia e fa una lunga e buona stagione all’Azzurra di Riccione, quindi una breve tappa in Giappone, poi di nuovo in America per aprire altri ristoranti con Angelini.
In quel tempo viene informato da Gianfranco Vissani – con cui ha saltuari rapporti di lavoro soprattutto per la banchettistica esterna – che la persona più importante d’Italia sta cercando un cuoco.
“Torno in Italia e sono il primo cuoco, in 20 anni, che ha il colloquio di lavoro direttamente con l’Avvocato e non con Donna Marella. Si apre la porta, vedo un bastone, un signore con la camicia sbottonata. «Tu dovresti essere il cuoco che stavo aspettando» mi dice. Tante domande sulla cucina, sulla pasta e sull’America“.
Da Gianni (come Agnelli) a Giando
Con l’Avvocato Gianni Agnelli e Donna Marella rimane 4 anni. Cucina, in tutto il mondo, per gli ospiti della Famiglia Fiat, capi di stato, regnanti, politici, banchieri. “Viaggiava molto, ma solo in case di proprietà e per questo motivo aveva bisogno di un cuoco ’di viaggio’. Stavamo molto a Saint Moritz, a New York dove si curava per il suo male (un tumore alla prostata, ndr), in Corsica. Era un uomo dai gusti semplici. Amava le uova, lo stracotto di manzo al Barolo, le consistenze croccanti e anche un po’ bruciacchiate. Tutto il contrario di Donna Marella. Quando pranzavano insieme, però, faceva sempre scegliere a lei il menù.”
La brigata lo chiama “Gianni” e un giorno Donna Marella pensa che quel nome crea troppa confusione.
Così gli chiede il suo vero nome di battesimo. “Mi chiamo Giandomenico Caprioli. Bello ma troppo lungo, mi risponde. Meglio Giando. Un nome che mi porto dietro da allora e che mi ha portato fortuna”.
È dopo la scomparsa dell’Avvocato che decide di andare ad Hong Kong dove ha già contatti e interessi.
Dal 2004 al 2011 lavora con un socio. Il sodalizio finisce, ha un incidente in Vespa, rimane bloccato per mesi e progetta. “Ho capito allora che dovevo tentare una strada solo mia.” Giandomenico Caprioli torna in Italia, raccoglie mobili antichi che appartenevano alla casa dei suoi genitori, affitta uno spazio in una zona centrale al confine con l’area industriale del Victoria Harbour e lo arreda.
Giando a Hong Kong
Nel 2011 apre i battenti Giando, al Fenwick Pier.
“La caratteristica del mio ristorante è il food cost, il costo degli ingredienti: in una struttura anche di alto livello questo oscilla tra il 20 e il 25% del prezzo finale, ma nel nostro caso arriva al 40%. La lista dei vini, poi, è l’unica a Hong Kong a coprire tutte e venti le regioni italiane; per sottolineare la nostra passione per gli ingredienti di base abbiamo anche aperto un piccolo negozio, Mercato by Giando. Perché voglio vendere i prodotti artigianali italiani che uso in cucina.
Seguono un ristorante di pesce e, durante il primo isolamento a causa del Covid, Cotto e crudo, un pop up di Giando che è stato la nostra salvezza. Cibo da asporto e delivery: un grande successo durante la pandemia. Però la mia vera fortuna è stata l’acquisizione, nel 2015, di un’azienda che importa e conserva prodotti. Fondamentale per la mia autonomia.”
Quanto gli manca, però, l’Italia?
“Ogni volta che guardo qualcosa di bello penso all’Italia. Il mio sogno era di fare l’agricoltore. Ogni cosa buona e sana che importo ad Hong Kong mi fa sentire meno lontano. I miei trascorsi ai tempi in cui stavo in Giappone mi hanno fatto vedere il mondo come attraverso i loro occhi. Che percepiscono e ammirano la bellezza della manualità di chi fa, di chi crea con le proprie mani prodotti artigianali preziosi. Spesso nemmeno noi italiani ci rendiamo conto di quanto valore abbiamo.
Io, nel mio piccolo, cerco di divulgare, proteggere e conservare il grande patrimonio agroalimentare italiano.”
[Questo articolo è tratto dal numero di Novembre-Dicembre 2022 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello Sfoglia Online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea.]