
Ma siamo sicuri che battersi per gli orari no limits nei ristoranti sia una conquista?
L’ho chiesto ad alcuni chef e la risposta è stata unanime: no.
Nessuno pensa che sia un vantaggio sforare la mezzanotte per quell’unico tavolo di perditempo rimasto, obbligando a una servile dipendenza cuochi e camerieri sfiniti dai lunghissimi orari. Perché sono proprio i turni di 12/14 ore, spesso mal retribuiti, la causa della massiccia scomparsa di cuochi e camerieri non più disposti a scambiare la propria vita con le evitabili pretese altrui: ormai è chiaro che vita privata e salute sono beni primari non più svendibili.
La libertà del cliente non può significare la schiavitù del ristoratore e del suo personale: queste “attività di servizio” a oltranza competono a bar, autogrill, pub e paninoteche, dove prestazioni professionali e rapporti interpersonali sono ridotti al minimo, ma non ai ristoranti che potrebbero espletare meglio il loro lavoro in orari “civili” e circoscritti.
Sappiamo bene che cuochi e ristoratori vivono più nei propri locali che a casa, ma la chiusura forzata del 2020 ha fatto riscoprire a molti di loro il piacere di concedersi ritmi meno alienanti, più rispettosi del proprio privato.
Chi è costretto a chiudere alle 2 di notte per servire il cliente tardivo, obbligando poi camerieri e cuochi a sommarie pulizie e arrivando a casa addirittura troppo stanco per dormire, spesso alle 8 del mattino ha già i fornitori fuori dalla porta o è costretto a sbrigare le mille incombenze burocratiche e gestionali.
Abituare la gente ad alimentarsi in orari decenti (anche perché è noto che cenare tardi fa male) sarebbe educativo e sano.
Quella distorta mentalità da discoteca che privilegia le ore piccole per lo svago, mettendo poi per strada un esercito di zombie pericolosi per sé e per gli altri, poco ha a che fare con chi ama la cucina e una sua più ragionevole frequentazione: sarebbe ora che i ristoratori non chiedessero solo la collaborazione dei propri dipendenti, ma anche soprattutto quella dei propri clienti.