Il 2018 è stato un annus horribilis per la ristorazione non tanto per i fatturati che, in realtà, sono aumentati battendo ogni record, bensì per l’elevato numero di locali costretti a chiudere: oltre 25.000 a fronte di quasi 14.000 aperture.
Fotografa il fenomeno con lucidità Lorenzo Ferrari in questo numero del giornale, ribadendo quello che da anni cerchiamo di spiegare e cioè che i lustrini di Masterchef sono fuorvianti perché chef non ci si improvvisa, ristoratori ancor meno. E i problemi sono tali da costringere alla chiusura entro 5 anni dall’apertura anche i più ottimisti neo-imprenditori.
Quali problemi in particolare?
Innanzi tutto la fitta ed esosa rete di tasse e balzelli imposti dallo Stato, le esorbitanti spese di gestione tra utenze, personale, attrezzature, affitti, incidenza del costo delle derrate alimentari, forse la voce più incolpevole, nel quadro generale.
Ma al vistoso turnover dei ristoranti contribuiscono oggi anche nuovi fattori, non ultima la concorrenza tra troppi esercizi, aperti proprio per eccessivo successo del settore.
E se probabilmente, come spiegano i nostri esperti, la ristorazione un tempo frequentata dalla classe media è destinata pian piano a scomparire insieme alla classe media, mi permetto di pronosticare che non saranno solo il top e il low level a sopravvivere, ma anche:
• trattorie e ristoranti di chiara e onesta matrice tradizionale con ineccepibile rapporto qualità/prezzo;
• cucine di prodotto (salumi e formaggi locali eccellenti, ma anche pesci o carni con manipolazioni minime);
• ambienti a storica conduzione familiare.
Dunque, cucina credibile e saper fare tangibile: nessuna mezza misura, nessuno spazio per una creatività orecchiata o copiata dai famosi.
Quello del cucinare per il pubblico è un lavoro duro che non lascia spazio all’improvvisazione e alla mistificazione, quindi, “ofelè fa el to mesté”.
Tutti gli altri, prego, si astengano…