C’è un uomo, sulle colline del Friuli ad un passo dal confine dalla Slovenia, che per andare avanti ha deciso di tornare indietro. Che un bel giorno ha buttato all’aria la sua cantina, svuotandola di tutto l’acciaio che nel tempo vi aveva accumulato, per sostituirlo con la terracotta: «Non è possibile che per cinquemila anni l’uomo si sia sbagliato e abbia fermentato il vino nei contenitori sbagliati, ovvero le anfore». Così Josko Gravner, per tanti anni illuso dalle fallaci promesse della modernizzazione, si è convertito al passato e ha riempito i vòlti della sua cantina ad Oslavia, un minuscolo borgo nel Goriziano, con decine e decine di anfore di terracotta provenienti dal Caucaso, convinto – e i suoi vini lo testimoniano chiaramente – che sia questo il sistema più adatto per lasciare che l’uva diventi vino. Come dice lui di solito, fare il vino è come andare a cercare l’acqua pulita: non si deve andare alla foce, ma alla fonte. D’altronde che la terracotta deposta sotto terra fornisca un isolamento termico quasi perfetto è noto da tempo, più dell’acciaio e del cemento; così come è noto che l’anfora, opportunamente rivestita di cera d’api, garantisce al vino un’ossigenazione decisamente inferiore rispetto a quella di una barrique, al livello di una botte di legno di medie dimensioni, col vantaggio però che il prodotto non subisce alcun tipo di alterazione, né a livello di tannini né di aromi. Si tratterebbe insomma della soluzione ideale per consentire al vino di maturare senza alcun tipo di perturbazione dovuta a fattori esterni, conservando completamente aromi e profumi varietali che invece cemento o acciaio tendono ad appiattire. Ne esce un vino dal sapore fruttato e dalla caratterizzazione decisa, e solo perché è fermentato sette mesi nella terracotta.
Produrre come 5.000 anni fa
«L’anfora – spiega Gravner – permette di rispettare i tempi naturali della fermentazione senza dover intervenire né con aggiunte, se non con lo zolfo usato già al tempo dei Romani, né con chiarifiche, né tantomeno con il supporto di lieviti. Al termine della fermentazione il vino passa nelle botti di legno e compie la sua maturazione definitiva. Semplice come semplice era produrlo cinquemila anni fa, quando certe diavolerie della tecnica moderna non esistevano. D’altronde se il vino non tocca il cuore e l’anima, è solo una bibita».
Per seguire il suo sogno, Gravner è partito per la Georgia, dove i vini a maturare nelle anfore ce li continuano a mettere da tempo immemorabile: laggiù è venuto a conoscenza di tutti i segreti dell’operazione e laggiù ha acquistato i primi contenitori in cui sperimentare e li ha portati a casa. Il resto è storia recente.
Che si tratti di un’operazione di nicchia è però innegabile.
Impossibile per le grandi aziende convertire il loro parco botti in anfore: le dimensioni ridotte del contenitore in terracotta infatti impedirebbero i grandi numeri necessari a mantenersi sul mercato.
Si tratta dunque di una scelta destinata perlopiù a quanti desiderano lavorare nel pieno rispetto delle procedure naturali e produrre un vino il più biologico possibile.
E non sono comunque pochi, visto che da qualche tempo un’azienda fiorentina, Le Fornaci di Impruneta Artenova, ha deciso di lanciarsi in questo nuovo settore merceologico, evitando ai produttori interessati di doversi sciroppare un lungo e periglioso viaggio verso la Georgia per fare il pieno di anfore. Duecento pezzi all’anno all’incirca, suddivisi nelle tre tipologie più richieste (tradizionale, uovo, dolium romano), distribuiti a produttori italiani, ma anche francesi o americani. Il tentativo di tornare alle radici dell’arte enoica, insomma, merita adeguata attenzione, al punto che il dipartimento di chimica dell’Università di Firenze ha avviato un’indagine volta a verificare scientificamente effetti e conseguenze della permanenza del vino nella terracotta, i cui risultati saranno probabilmente divulgati già alla convention internazionale «La terracotta e il vino» alla fine di quest’anno. Dal momento che tutti i processi di fermentazione, affinamento e conservazione influiscono in maniera decisiva sulle specificità chimiche e organolettiche del vino e sono strettamente dipendenti dal tipo di contenitore nel quale avvengono tali processi, diventa importante individuare tutte le caratteristiche che la permanenza del vino nella terracotta può assumere, sfumature comprese. Materiale di composizione, dimensione, porosità: tutto può incidere, seppure in modo infinitesimale, sul carattere finale del prodotto. I ricercatori fiorentini vogliono capire se esiste un contenitore in grado di limitare al massimo le influenze negative e di esaltare quanto più possibile le specificità del liquido contenuto. D’altronde cinquemila anni non sono passati invano: se la scienza moderna può permetterci di individuare i contenitori più adatti per rievocare quello storico passato, non si tratta certo di doping tecnologico, ma di semplice voglia di sapere.
L’evoluzione dell’anfora
Nel frattempo altri, convinti della bontà della terracotta, si sono lanciati lungo altre strade, se possibile ancora più stravaganti. Giovanni Crosato, per esempio, altro noto produttore friulano, illuminato dalla soluzione fittile e purista ad oltranza, oltre a far maturare alcuni suoi vini nelle anfore, nelle anfore li vende pure: si tratta di piccoli contenitori in terracotta della capacità di un litro e mezzo grazie ai quali le specificità organolettiche del prodotto non vengono minimamente modificate dal contatto con altri materiali, foss’anche il vetro. A Rubbia al Colle invece, in pieno entroterra livornese, è nato il “barricoccio”, un contenitore unico nel suo genere: sempre di terracotta si tratta, ma lavorata in modo da sembrare una barrique. Una fusione fra anfora e botticella, insomma, che dovrebbe garantire da un lato il medesimo isolamento della prima e dall’altro la medesima comodità della seconda, visto che gli spazi in cantina non devono in questo caso essere adattati alle nuove tipologie. E infine ecco il Clayver, evoluzione tecnologica dell’anfora ma non troppo: si tratta di un contenitore sferico in gres porcellanato di capacità variabile (dai 50 ai 350 litri) che, secondo le promesse della ditta costruttrice, la MimItalia di Savona, dovrebbe limitare al massimo le criticità della terracotta ed esaltarne invece le peculiarità positive. L’anfora infatti, a causa della sua porosità, consente un seppur minimo scambio di ossigeno con l’esterno e al tempo stesso, se non rivestita di cera d’api – che comunque lascia testimonianza della sua presenza nel vino – rischia di far fuoriuscire una quantità di vino che in certi casi arriva a sfiorare il 30%. Antiquariato sì, ma fino a un certo punto, perché poi, il vino, bisogna pure venderlo. Anche se non rimane quella la priorità dell’operazione, come ha saggiamente chiosato Josko Gravner: «Ci fu un tempo in cui i miei vini erano l’esatta tipologia che il mercato richiedeva. Poi decisi di complicarmi la vita, perché volli seguire il mio istinto, il mio cuore. Nel 1997 iniziai un percorso diverso. I vini fatti fino ad allora mi insegnarono tanto e mi fecero capire i limiti dell’enologia moderna. I limiti delle mode». Purché, ovviamente, non diventi l’anfora stessa una moda.