Prosecco, franciacorta, Cruasé, Trento Doc, Talento
Che il mondo degli spumanti italiani sia in effervescente movimento può sembrare una banalità. Eppure è proprio così che sta andando in questo particolare momento storico per i tanti produttori di bollicine del nostro Paese. La causa molti la indicano nell’improvviso (ma non improvvisato) strapotere del Prosecco, che soprattutto all’estero si sta trasformando nel “pericoloso” sinonimo di vino mosso italiano: ordinare un prosecco, per molti, significa attendersi nel flut un vino bianco, frizzante, secco seppure abboccato, indipendentemente dalla sua storia o dalla sua provenienza. Sulle modalità di produzione pochi hanno le competenze adeguate per potersi esprimere: sono più coloro che ignorano le differenze fra un metodo classico e uno charmat rispetto a quelli che invece le conoscono e persino le apprezzano. E su questo terreno i produttori di metodo classico stanno perdendo contatto e, conseguentemente, quote di mercato. È proprio per tale motivo che da qualche anno in qua si registra una certa inquietudine: si sta correndo ai ripari, insomma. E le strategie sono numerose e diversificate.
LE STRATEGIE DI FRANCIACORTA E OLTREPO’
Consolidate – e per il momento vincenti – quelle elaborate per esempio dai produttori di Franciacorta e Oltrepò Pavese: i marchi Saten e Cruasé hanno sfondato e sono riusciti a conquistare, grazie soprattutto alla grande qualità di quei vini, il favore degli appassionati. Si tratta, com’è noto, dei prodotti di punta della produzione spumantistica di quei territori: il Saten, chardonnay e pinot bianco, è il superFranciacorta, frutto di una lavorazione più accurata che gli conferisce quella morbidezza gustativa che i consumatori hanno imparato ad apprezzare; il Cruasé, invece, brillante intuizione di Carlo Alberto Panont, è di fatto una nuova categoria di bollicine, il rosato nato dalla spremitura soffice del pinot nero che da quelle parti è stato a lungo utilizzato per prodotti di minor charme. Va detto che, soprattutto in quest’ultimo caso, l’esperimento ha funzionato, nel senso che per molti consumatori Cruasè è diventato sinonimo di bollicine rosate, proprio quello che si cercava di ottenere secondo il progetto iniziale. Certo siamo ancora agli esordi, ma il numero di bottiglie prodotte e di aziende coinvolte nel progetto aumenta di anno in anno, lasciando intravvedere buone speranze per il raggiungimento dell’obiettivo di fidelizzazione che rimane prioritario. «Si tratta di un progetto nato molti anni fa e realmente concretizzato nel 2004 – spiega lo stesso Panont, direttore del Consorzio di tutela dell’Oltrepò – per rilanciare e rivalorizzare il pinot nero, prodotto peculiare del nostro territorio.
Abbiamo deciso di uscire definitivamente dal concetto di cuvée ragionando “in rosa” fin dalla vigna, senza più ritocchi né dosature. È nato così questo spumante rosato, primo progetto collettivo al mondo del genere, che abbiamo deciso di chiamare cruasé partendo proprio dai concetti di “crudo”, ovvero naturale, e di cru, ovvero qualità territoriale, e abbinandoli ad un’assonanza finale che ricordasse il rosé ma anche l’Oltrepò, con l’accento finale. L’obiettivo? I due milioni di bottiglie indispensabili per sfondare anche nel mercato americano». E abbinare così al consolidato prosecco anche il brand Cruasé: senza maiuscole, ovviamente.
LE DIFFICOLTA’ DEL TRENTO DOC
Chi annaspa maggiormente, invece, è lo spumante trentino, un tempo l’eccellenza qualitativa della produzione nazionale e oggi indeciso se difendere le sue specifiche peculiarità, rinunciando così ad una penetrazione in grande stile nei mercati maggiori, oppure se sacrificare anni di qualità al massimo grado per strizzare l’occhio anche ai consumatori meno preparati ed esigenti. Del Talento si è già parlato. Ma c’è chi si sta muovendo anche in altre direzioni, per esempio verso il riconoscimento di una Docg per il Trento doc che possa portare le bollicine trentine perlomeno sullo stesso piano della concorrenza, visto che sia Prosecco, che Oltrepò, che Franciacorta la “g” l’hanno aggiunta già da tempo. E quella “g” in etichetta sembra faccia davvero la differenza, visto che il consumatore medio è sempre più propenso a considerare di serie A i vini docg e di serie B quelli semplicemente doc, ignorando in realtà il significato reale della classificazione. Ma dal Consorzio Vini del Trentino non trapela alcuna conferma ufficiale, anzi: «In sede istituzionale non lo ha mai proposto nessuno in tempi recenti – dichiara il direttore Erman Bona – e se qualcuno ne ha parlato, lo ha fatto a titolo esclusivamente personale.
Noi non abbiamo nessun progetto di disciplinare di cui discutere, anche se confermiamo la nostra piena disponibilità ad accogliere e sostenere una eventuale scelta di questo tipo, qualora lo vogliano i produttori».
VALORIZZARE IL BRAND TALENTO
A buttare il sasso era stata casa Ferrari, durante il recente Vinitaly, ipotizzando nuovi scenari per rilanciare l’immagine del Trento doc, un nome che, sondaggi alla mano, non solletica a sufficienza la fantasia degli appassionati.
E si era dichiarato possibilista anche Fabio Rizzoli, ad di Mezzacorona, contemporaneamente impegnato a dare valore al “nuovo” brand Talento. Tuttavia sarebbe una soluzione dal sapore amaro: la docg invocata più come estremo tentativo di difesa rispetto ad un’ipotetica retrocessione nei gusti dei consumatori, che non come progetto preciso e strategico, come invece dovrebbe essere. E come è peraltro stato per Prosecco, Franciacorta e Oltrepò. Che non a caso oggi si trovano in posizione privilegiata rispetto ai loro colleghi trentini.
C’è intanto chi mormora di contatti sempre più frequenti fra produttori “storici” di Trento doc e Franciacorta, leggendo fra le righe di recenti gemellaggi del gusto, svoltisi prima nel Bresciano e poi in territorio trentino, i prodromi di un’alleanza delle bollicine che rivoluzionerebbe l’intero settore. Gli interessati, al momento, negano, anche se dietro le quinte molti dei brindisi fatti in nome dell’ospitalità reciproca sono stati letti come segnali decisivi. Si era banalmente detto, d’altronde, che il mondo delle bollicine è in grande fermento: giunti a questo punto della situazione, nulla sembrerebbe ormai improbabile. Si tratta soltanto di attendere gli inevitabili sviluppi.
E INTANTO IL PROSECCO SBANCA IN AMERICA
Nel frattempo il Prosecco sta conoscendo negli Stati Uniti un successo straordinario, tale da giustificare, secondo i produttori veneti e friulani, gli enormi sforzi economici fatti per aumentare nel giro di pochi anni il numero di bottiglie. La conferma è arrivata nello scorso mese di maggio, quando sull’autorevole Wall Street Journal, per salutare il contemporaneo successo del Cava, le bollicine made in Spagna, le si definiva “the Prosecco of Spain”, sancendo così in maniera definitiva l’acquisizione antonomasica del vino italiano. Negli Stati Uniti il vino bianco leggermente frizzante da sorseggiare prima di cena o durante i momenti di svago e libertà è diventato prosecco, con la p minuscola. Il che non va certo considerato un declassamento, anzi: è il segnale evidente che anche dal punto di vista commerciale il Prosecco è stato capace di gestire il suo successo in maniera intelligente. Ma il bello, preconizzano alcuni, viene adesso. Perché tutto sta nel capire se gli americani hanno dato tutto quel credito al Prosecco perché affascinati dal suo gusto o dal suo costo, decisamente più contenuto rispetto a spumante o champagne. Se infatti arrivasse sul mercato qualcosa di altrettanto affascinante, magari proprio dalla Spagna, lo scenario potrebbe mutare radicalmente.
L’ESCLUSIVITA’ DEL MARCHIO “CHAMPENOIS”
L’anno della svolta fu il 1994, quando i francesi rivendicarono per sé l’esclusività di un marchio, “champenois”, che fino ad allora era stato utilizzato da tutti coloro che producevano e imbottigliavano bollicine secondo quella specifica metodologia. Da quel momento il metodo champenois scomparve dalle etichette nostrane, non certo dalle cantine. Eppure il contraccolpo ci fu, visto che i consumatori di bollicine all’estero rimasero disorientati di fronte ai tanti, autarchici tentativi di sopperire ad un brand ormai universalmente accettato e riconosciuto. Oggi, a distanza di quattordici anni da quell’astuto colpo di mano, pare si sia raggiunto un onorevole quanto tacito assenso sull’alternativa, rappresentata da quel “metodo classico” che al di qua delle Alpi continua a significare ciò che prima significava champenois. Tuttavia i consumatori stranieri non se ne sono ancora fatta una ragione e continuano ad avere poco chiaro un quadro che invece i francesi, dal canto loro, sono stati in grado di illustrare con grande semplicità. Pare infatti che al di là di Asti spumante e di Prosecco gli appassionati americani o asiatici di bollicine nostrane non si riescano a spingere. Vuoi perché a Filadelfia o a Canton poco sanno di Trento doc o di Malvasia dolce, vuoi perché Asti e Prosecco sono riuscite ad affermarsi come marchio autonomo e specifico, cosa che invece ai produttori di spumante secondo metodo classico non è accaduta.
TALENTO E TALENTUOSI
È questo il motivo per cui Claudio Rizzoli, patron di Rotari, il gigante trentino delle bollicine, ha preso il toro per le corna e nel luglio scorso ha letteralmente resuscitato il marchio Talento, che giaceva agonizzante nelle mani del Ministero delle Politiche Agricole. Già nel 1975 Antinori, Carpenè, Contratto, Ferrari, Gancia e La Versa avevano tentato di dare vita ad un compendio spumantistico autonomo in cui si potessero riconoscere tutti i produttori secondo metodo classico o champenois che dir si volesse, ma inutilmente. «Allora l’errore fu quello di creare una sorta di consorzio privato – spiega Rizzoli, febbrilmente impegnato a far sì che il progetto possa finalmente radicarsi – che si sfaldò ai primi veti incrociati, alle prime invidie, alle prime gelosie. Oggi invece Talento è un marchio di proprietà del Ministero e l’Istituto fondato nel luglio dello scorso anno si propone solo come strumento di promozione e valorizzazione. Con il vantaggio che il Ministero fissa le condizioni di appartenenza senza poi pretendere null’altro, mentre chi aderisce e si impegna a produrre spumante secondo quanto imposto si può fregiare del marchio e nulla più. È una risorsa open source e come tale può essere utilizzata». Un’operazione sostanzialmente mediatica, verrebbe da dire, con la quale tentare di superare l’evidente svantaggio che lo spumante metodo classico ha accumulato rispetto ai concorrenti italiani del Prosecco che all’estero si stanno imponendo come “le” bollicine italiane. «Metodo classico all’estero non funziona, c’è poco da fare – aggiunge Rizzoli – è una denominazione troppo lunga, poco chiara, soprattutto soggetta a troppe interpretazioni. Ecco perché abbiamo ripensato al Talento: un nome facile, una menzione protetta, un simbolo di qualità». A fregiarsi del titolo “Talento” in etichetta sono oggi 14 tra le maggiori cantine italiane di spumante metodo classico.
Ma la speranza di Rizzoli è che diventino sempre più numerose e, tutte insieme, possano dare vita nel giro di un decennio a quella massa critica che sola sarebbe in grado di lanciare il Talento nell’olimpo delle bollicine mondiali.
IL VALORE DEL TERRITORIO
Certo, qualche ostacolo da superare c’è. Franciacorta, innanzitutto. Che già da anni ha scelto un’altra strada e lo ha fatto per decreto legge, visto che nessuna azienda può esibire in etichetta sia la dicitura “Franciacorta” che quella “Talento”. Eppure sempre di metodo classico si tratta. «A noi non interessa seguire questo percorso – dice Maurizio Zanella, patron di Ca’ del Bosco e presidente del Consorzio di tutela bresciano – perché non crediamo sia corretto valorizzare un vino celebrando la sua metodologia di produzione. Non si è mai visto nessuno che valorizza un metodo. Nei Paesi del vecchio mondo il vino si valorizza con la denominazione, in quelli del nuovo con il vitigno, anche se molti stanno già adeguandosi alle vecchie metodologie. È per questo che insistiamo a puntare sul territorio, perché crediamo possa portare quel valore aggiunto che altrove si sta ancora cercando». E se la posizione degli spumantisti bresciani non fa una grinza dal loro punto di vista, in considerazione della notorietà del brand e delle vendite conseguenti, voci dissonanti si trovano anche all’interno del medesimo ambito di Zanella.
BOLLICINE IN CERCA DI IDENTITA’
Camilla Lunelli, che dal padre ha ricevuto in eredità lo storico marchio Ferrari, che in Italia è sinonimo di bollicine di qualità, insiste a voler seguire il percorso indicatole, ovvero continuare a puntare su “Trento Doc”: «Noi crediamo che il legame col territorio sia imprescindibile, quindi difficilmente potremo assecondare il progetto portato avanti da Mezzacorona. Certo, che qualche problema di comunicazione sulle bollicine ci sia è innegabile: non è semplice, per il consumatore medio, capire dove ci può essere davvero qualità a prescindere. È altrettanto vero però che noi vendiamo principalmente il brand Ferrari, che peraltro costituisce da solo quasi il 60% della denominazione Trento Doc. Non abbiamo quindi necessità di garantirci un’identità sicura: quella l’abbiamo conquistata con anni di lavoro duro e serio». Ma Rizzoli insiste: «In un momento di grave crisi del settore – aggiunge – è indispensabile provare ad individuare una strada che permetta al metodo classico italiano di rendersi facilmente riconoscibile all’estero. Perché se è vero che alcuni marchi, in Italia, si vendono da soli, è altrettanto vero che gli stessi, al momento di affrontare i vasti mercati esteri, perdono tutto il loro appeal. Noi crediamo che sia necessario dare vita ad un progetto di distretto produttivo in cui i consorzi non abbiano l’ultima parola: quella dovranno averla le singole aziende, perché l’operazione Talento è prima di tutto un’operazione di valorizzazione dell’attività di impresa.
Oggi stiamo ragionando sui macronumeri di un mercato mondiale che, volenti o nolenti, fa fatica a riconoscerci. E per questo fa fatica anche ad acquistarci». La strada per riportare lo spumante italiano sulla breccia, secondo i “talentuosi”, non può che passare attraverso la riesumazione di un nobile marchio, da trasformare in simbolo di resurrezione. Il tempo è galantuomo: dieci anni e sapremo se Talento sarà il nuovo nome con cui andremo a chiamare lo spumante di un certo tipo o se tornerà ad essere un marchio da seppellire nei cassetti del Ministero. Questa volta per sempre.