
1) Ciao Francesco, partiamo dall’inizio: perché hai deciso di intraprendere la carriera di sommelier? Vocazione o ci sei inciampato come spesso accade in questo mestiere?
Ciao Alessandro, giusto, partiamo dall’inizio: scelsi la scuola alberghiera contro la volontà di tutti – amici e parenti – per intraprendere la carriera di cuoco.
Non esistevano all’epoca tutti i programmi televisivi dedicati alle giacche bianche che ci sono adesso. Conoscevo solo un ragazzo che lavorava in cucina sulle navi da crociera ed era forse questa la cosa che più mi affascinava di questo mestiere, girare il mondo e conoscere gente nuova.
Non tardai molto a cambiare idea comunque. Stare in cucina non era il mio ambiente, mi sentivo in gabbia.
Vedevo invece la sala come una liberazione che poteva dare libero sfogo alla mia personalità, da allora non ci siamo più lasciati.
Il vino venne molto tempo dopo. Mio padre ha sempre fatto il vino in casa per consumo personale e per qualche amico, comprava le uve da alcuni contadini irpini che imbottigliavano però la parte migliore.
Potete immaginare il risultato, aveva sempre qualche problema nella vinificazione – non glielo dite mi raccomando – ma il risultato era terribile! Io mi sono sempre rifiutato di bere quella roba, proprio non riuscivo a buttarlo giù.
Mi dissi: “vuoi che tutto il vino sia così cattivo?!”
Iniziai a studiare, viaggiare per cercare di capire cosa fosse questo “vino” che non mancava mai sulla nostra tavola. Faceva parte della famiglia, della nostra tradizione.
Spendevo tutti i soldi che guadagnavo lavorando come un matto in pizzeria nei week-end per comprare tutte quelle bottiglie che leggevo sui giornali e sulle riviste di settore. Da lì iniziai a formarmi attraverso corsi, degustazioni e tutto ciò che era possibile frequentare.
Non so se sia stata vocazione o possa esserci inciampato, ma adesso ci sono dentro fino al collo e non ne voglio più uscire.
2) Cosa vuole dire in termini di difficoltà gestire un tempio del vino come quello del San Domenico? Hai un compito difficile, ovvero riportare sempre di più questo monumento agli antichi splendori.
La cantina del San Domenico è frutto di tanti sacrifici da parte di coloro che hanno contribuito, bottiglia dopo bottiglia, a farla diventare una delle più rappresentative d’Italia.
Io sono solo l’ultimo tassello di un puzzle che è iniziato il 7 Marzo 1970.
Ricordo come fosse ieri il giorno in cui, durante una cena tra amici, Natale e Massimiliano mi chiesero di tornare (mi ero preso un paio di anni sabbatici in giro tra Italia ed estero) ad occuparmi della cantina del San Domenico.
Fu una sensazione strana, un misto tra orgoglio e paura.
Sapevo benissimo che gestire una cantina così importante sarebbe stato un compito molto difficile quanto emozionante.
All’inizio pensai di non avere le giuste caratteristiche: troppe etichette da studiare e memorizzare, la gestione degli acquisti con i tanti fornitori, valutare le varie annate di ogni produttore, gestire al meglio le tante bottiglie di annate storiche, decidere quali già pronte e quali ancora potessero ai tempi e possono oggi meritare affinamento.
Però poi subentrano la passione, il sudore, l’umiltà e la perseveranza che prevalgono sempre su tutto facendo si che ogni giorno tutti noi possiamo essere qui ad alimentare una storia già importante come quella del San Domenico. In fin dei conti è poi questo il bello del nostro lavoro.
Se dovessi tirare le prime somme direi che sono molto orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto fino ad ora, del riscontro positivo da parte dei nostri cliente e dei conti a fine anno, anche quelli molto importanti.
3) Una domanda secca: il vino più grande che hai bevuto fino ad oggi ?
Ne ho due per adesso, non uno solo. Non so se siano stati i più grandi, ma di sicuro i più emozionanti e sono il Brunello di Montalcino 1955 di Biondi Santi e un Marsala Vecchio Samperi 1914 di De Bartoli aperto nel 2014 al suo centesimo compleanno.
4) Veniamo al dunque, a una domanda che appassionerà chi ti legge: come nasce la tua carta dei vini?
La Carta dei vini del San Domenico è un viaggio che parte dalla Nuova Zelanda e termina in California passando dall’Europa, un viaggio che non ha destinazione. Sono sempre alla ricerca di nuove etichette da far scoprire agli amici e clienti che si fidano dei miei consigli e dei miei abbinamenti.
Cerco di dare maggiore importanza alle regioni vinicole o geografiche che più amo in assoluto che sono la Champagne, la Borgogna, le Langhe e l’Irpinia. Non mancano ovviamente i grandi classici, fondamentali per una carta equilibrata e di rispetto.
Credo ci sia un bell’equilibrio tra passato, presente e ovviamente vini atti a divenire importanti per il futuro.
Non si può studiare una carta dei vini di un ristorante come il San Domenico che ha clientela non solo locale, ma anche molto internazionale, proponendo solo ed esclusivamente vini che piacciono al sottoscritto, bisogna innanzitutto accontentare il palato e le abitudini dei nostri ospiti.
Da noi il: “che orrore! io quello non lo compro, troppo legno, troppa struttura, troppo qui e troppo lì, bla, bla, bla …” non esiste.
Ogni inserimento in carta che apporto è perché credo nell’etichetta e nell’azienda che la produce. Ovviamente tengo conto anche della stagionalità delle materie prime dei menu degustazione ma soprattutto perché credo di poter vendere quella bottiglia.
Noi non siamo né a Milano, né a Venezia, né a Firenze, siamo ad Imola.
5) Se non lavorassi al San Domenico, dove ti piacerebbe lavorare? E non dirmi da nessun’altra parte …
Ah! Sei proprio un B……O! (ride).
Allora ti dico: San Domenico (e ho la fortuna di lavorarci), Enoteca Pinchiorri di Firenze e Eleven Madison Park di New York.
6) Tre nomi di tre colleghi che apprezzi particolarmente e perché. Conoscendoti e dopo la domanda precedente so per certo che non risponderai…
Esatto! Ma non faccio nomi solo perché non voglio dimenticarmi di nessuno.
Apprezzo tutti coloro che fanno questo mestiere con passione viscerale.
Apprezzo i pochi umili che sono rimasti.
Apprezzo tutti quelli che sono da insegnamento per i propri colleghi.
Apprezzo i pochi che sono contenti del successo degli altri.
Apprezzo tutti i lungimiranti, coloro che non vedono solo il proprio orticello ma buttano l’occhio al di là della staccionata.
Apprezzo i pochi che, soprattutto in questo mondo, camminano con i piedi per terra e non una “spanna” sopra gli altri.
7) Vini bianco o vino rosso? E perché?
Questa è una domanda del “kaiser”!
Dico Champagne! C’è sempre un motivo per bere una bella bollicina. Più che una scelta di colore è una scelta di emozioni che voglio regalarmi in una determinata circostanza.
8) Cos’è per te il successo personale nel mondo del vino?
Raccontare il vino è una delle cose più semplici al mondo (lo vediamo, l’odoriamo, lo sentiamo e lo gustiamo) non facciamolo diventare incomprensibile con un approccio e una terminologia troppo complicata, con un linguaggio da astronauta della Nasa. E’ forse questo il vero successo personale nel mondo del vino: la semplicità e la purezza del racconto.
9) Il futuro di Francesco Cioria?
Spero innanzitutto di svegliarmi ancora tante mattine con la stessa voglia e la carica che ho adesso. Nel momento in cui non ci sarà più allora è il momento di riflettere attentamente.
Ad oggi sono felice di quello che sto facendo e dell’adrenalina che mi genera il servizio e la sala.
Poi ci sono tante idee, ma per adesso non dico niente, eppure, Alessandro, lo dovresti sapere dopo tanti anni: sono un meridionale e quindi scaramantico!