Si chiamano Falanghina, Grillo, Nerello Mascalese, Passerina, Asprinio, Catarratto, Durello. Vitigni sconosciuti ai più, noti più che altro ad una ristretta fascia di addetti ai lavori, eppure recenti protagonisti del boom da bollicine che sta rivitalizzando il settore. In uno dei pochi ambiti economici che tra il 2012 e il 2013 ha fatto registrare un più davanti alle cifre che fotografavano le differenze rispetto all’anno precedente, anche gli innumerevoli spumanti ricavati da vitigni autoctoni hanno saputo dare il loro contributo, rilanciando le rispettive aree territoriali di appartenenza e le loro specificità enologiche. Si parla, ovviamente, di una percentuale modesta dei 450 milioni di bottiglie di spumante italiano stappate in tutto il mondo nel corso dell’anno passato. Eppure gli spumanti “sconosciuti” stanno vivendo un momento di straordinario splendore, complice il rilancio che a livello mondiale stanno conoscendo le bollicine, soprattutto italiane. Moda, migrazioni del gusto, crescita culturale: i motivi non si conoscono, ma finché le cantine dei produttori si svuotano spesso a stagione ancora in corso, nessuno ritiene opportuno cercare di scoprire l’arcano.
E dire che fino a qualche anno fa piazzare una bottiglia di Inzolia o di Pecorino spumantizzati era impresa disperata. Si trattava spesso di curiosità enologiche, prodotte da pochi appassionati più per scommessa che per convinzione, nonostante le tradizioni testimoniassero interesse fin dalle origini del fenomeno. Vini che raramente uscivano dai confini regionali, ma spesso nemmeno da quelli provinciali. E che ora stanno conoscendo apprezzamento e – se si può dirlo per prodotti diffusi in poche migliaia di pezzi – celebrità. Ma c’è stato chi già molti anni fa ha creduto che gli spumanti “di nicchia” potessero dire la loro e reggere il confronto con le bollicine più decantate del nostro Paese.
BOLLICINE CON L’ANIMA
Gianluigi Orsolani, per esempio, che nel 2005 insieme ad un manipolo di produttori pronti alla scommessa ha dato vita ad Anima, acronimo dell’Associazione Nazionale Italiana Metodo classico Autoctono. Convinto della validità del suo Caluso, ha coinvolto altri che come lui credevano nelle potenzialità di prodotti in cerca di adeguata valorizzazione. Ci hanno provato in una trentina di produttori: «All’epoca – ha raccontato Orsolani – l’attenzione ai vitigni autoctoni iniziava a farsi più precisa, ma la moda delle bollicine era ancora di là da venire. Tuttavia noi credevamo nel nostro prodotto. Che senso poteva avere, ci dicevamo, affrontare il mercato proponendo soltanto copie, anche se spesso migliori degli originali? Quali specificità potevano offrire i tanti chardonnay piantati un po’ dappertutto per replicare vini già visti e sentiti? Perché un territorio variegato come il nostro non poteva esprimere anche nelle bollicine autentiche originalità con le quali proporsi ai consumatori? Anima è nata così, per raccogliere intorno ad un progetto quanti credevano a questi principi». Si sono affacciati così sul mercato i pecorini, i carricanti, gli aglianici declinati in forma frizzante. Poi Anima ha perso la sua spinta propulsiva, più sopraffatta dalle difficoltà burocratiche che non impoverita nei punti di riferimento. «D’altronde sapevamo fin dall’inizio che sarebbe stata un’impresa – ha continuato Orsolani – soprattutto perché saremmo andati ad unire in un’unica associazione realtà assolutamente eterogenee per tipologie e lavorazioni, da Aosta all’Etna. Ognuna con peculiarità specifiche difficili da condividere. Da allora però lo spumante ha finito di essere considerato un accessorio aziendale e ha acquistato, ora più ora meno, dignità autonoma. Una strada, insomma, l’abbiamo tracciata». Starà ora alla lungimiranza degli eredi capire come percorrerla per non tradire lo spirito originario.
LA FRAMMENTAZIONE PUò ESSERE UN PROBLEMA
C’è tuttavia chi ha fin da subito faticato a comprendere il senso dell’intera operazione, come Giampietro Comolli, deus ex machina dell’Osservatorio economico dei vini effervescenti, aggiornatissimo data base per quanti sono interessati ai numeri della produzione e del consumo delle bollicine in Italia e nel mondo. «Da che mondo è mondo – ha commentato – la vigna non ha mai dato quello che il contadino voleva. Se spumantizzare la Passerina mi serve a fortificare la percezione del patrimonio enologico a livello locale, ben venga; se però si pretende di promuovere anche le 30mila bottiglie prodotte da venti cantine diverse, allora non ci siamo.
D’accordo la rivalutazione e la tutela della produzione tradizionale territorio per territorio, ma senza pretese. Se fatti bene – e oggi, lo dico da enologo, è più difficile fare un vino cattivo che buono – possono benissimo rappresentare un’alternativa aromatica da affiancare ai prodotti che da anni stanno rendendo sempre più forte lo spumante italiano. Creazioni collaterali che vanno tenute separate dalla strategia generale, perché quelle rare volte in cui riescono a varcare i confini del nostro Paese, rischiano di generare nel consumatore ancora più confusione, anche in quello sedicente esperto».
Un problema che però Giuseppe Bonci non ha. Patron storico della cantina Vallerosa Bonci di Cupramontana, nell’entroterra marchigiano, lui il suo Verdicchio lo spumantizza da quarant’anni, in barba a tutte le strategie, perché così facevano suo padre e suo nonno. «È una tradizione – ha detto – per di più assai apprezzata. Io capisco che l’ampliamento delle tipologie dei vitigni da spumantizzare rischi di creare confusione nel consumatore, ma perché mai dovrebbe esserci d’ufficio una zona privilegiata rispetto a tutte le altre? Io produco circa 250mila bottiglie di Verdicchio l’anno: un quinto sono spumantizzate e non me ne resta una sola in cantina. Il mio Verdicchio è in Giappone e negli Stati Uniti, esattamente come gli spumanti più blasonati. Dunque di cosa stiamo parlando? Certo, in Francia lo Champagne è diventato Champagne perché si è lavorato per settori, ma da noi ogni territorio cerca di promuovere al meglio le sue potenzialità. Non nego che da noi molti produttori si siano dati allo spumante per completare la gamma da offrire agli acquirenti della grande distribuzione, ma ciò non toglie che si tratti comunque di una chance a cui non rinunciare, specie in tempi di ristrettezze come quelli che stiamo vivendo».
Desideroso di proporre una versione nuova ed originale del Vermentino si è invece dichiarato Luigi Rubino, titolare delle Tenute Rubino, nel Salento pugliese, che da poco hanno dato vita al Libens, prima versione spumante ottenuta, appunto, dal Vermentino in purezza. «Dopo numerosi esperimenti – ha commentato – abbiamo deciso di partire, perché eravamo convinti – e i risultati ci hanno dato ragione – che l’uva fosse adatta a questo processo di vinificazione. Cercavamo uno spumante marino e identitario, esattamente quello che esce dalle nostre cantine». E non sono pochi quelli che si avvicinano al metodo classico per reinventare sapori e sfumature. E per rivalutare, soprattutto, vitigni e vini conseguenti di modesto appeal sugli appassionati. Le bollicine diventano allora uno strumento a disposizione del vignaiolo per sfruttare fino all’ultimo tutte le possibilità, spesso con buoni, se non ottimi risultati. Come peraltro ha provato a fare Franco Di Filippo, artefice di un vero e proprio azzardo enologico, quando ha tentato di spumantizzare il suo Moscato di Trani. «Abbiamo provato a ribellarci alla standardizzazione del gusto – ha raccontato mescendo un goccio del suo rosolio, l’“Estasi in sinfonia” – e abbiamo fatto rifermentare il Moscato sui suoi lieviti. Una procedura certo particolare e innovativa, che ha dato però soddisfazione». I puristi hanno subito gridato allo scandalo, ma se l’obiettivo è quello di stupire o di attirare l’attenzione su scenari lontani dai panorami consueti, allora Di Filippo ci ha visto bene. Tremila bottiglie in tutto, con le quali però si reclama, a voce sommessa, un minimo di visibilità, quella necessaria a sottrarsi ad una pericolosa omologazione.