Che gli sparkling wine, ovvero quelle che noi con una discutibile approssimazione definiamo “bollicine”, potessero trovare nelle campagne inglesi un perfetto terreno di coltura, non lo avrebbe mai immaginato nemmeno il più ardito e visionario dei vignaioli. Eppure è accaduto: sono più di dieci milioni ormai le bottiglie di spumante prodotte ogni anno da oltre cento aziende con uve Chardonnay e Pinot coltivate interamente sul suolo britannico. Molti di questi vini, per di più, fanno la loro bella figura anche accanto a prodotti ben più blasonati e rinomati messi sul mercato da aziende dalla tradizione più che consolidata.
Nessuna sorpresa, però, a meno che non si pensi che i cambiamenti climatici siano una fola raccontata da una cricca di cospiratori intenzionati a impadronirsi delle leve dell’economia mondiale dei prossimi anni. Il clima sta cambiando e a segnalarcelo in tutta la sua tragica urgenza sono anche le uve: quelle che solo una manciata di anni fa nessuno avrebbe pensato di poter coltivare oltre il canale della Manica, oggi danno vita a spumanti anche prestigiosi.
Certo, il lavoro in cantina è stato quello che ha permesso la metamorfosi, ma miracoli simili non possono avvenire se alla base non c’è un prodotto dalle caratteristiche organolettiche adatte.
Addirittura una grande casa produttrice di Champagne ha acquisito terreni vitati nel sud dell’Inghilterra pronta ad approfittarne per sostituire quelli che negli anni saranno destinati a modificare le loro specificità, impedendo di fatto la continuazione di una tradizione che il climate change, come lo chiamano lassù, sta minando alle fondamenta.
I vigneti salgono
Il clima cambia e i produttori corrono ai ripari come possono, ora trasferendosi verso latitudini più settentrionali ora elevando ulteriormente la quota delle colline da trasformare in vigneti. In Trentino, territorio che più di altri consente di sperimentare questa soluzione, i vignaioli stanno già lavorando in tela direzione: Mario Pojer, apprezzato produttore di Faedo, poco sopra la Val d’Adige nei pressi di San Michele, racconta che le prime vigne di Pinot Nero furono piantate 40 anni fa a 350 metri di altezza, ma vent’anni dopo vennero spostate a quota 450 metri, mentre ora si sta studiando il trasferimento a 650 metri, nella speranza che il clima d’altura possa replicare le medesime peculiarità di quello originale, ormai perduto. La vicina valle di Cembra, un tempo buona per l’estrazione del porfido, si è trasformata in un unico, rigoglioso vigneto, su e su fino a salire agli 872 metri di Vigna delle Forche, dove si produce uno dei Müller-Thurgau più alti d’Europa. Il global warming sta modificando in modo sensibile le modalità di produzione del vino: la buona notizia è che la vite ha dimostrato nel corso della sua storia millenaria di potersi adattare ad ogni tipo di cambiamento trovando il modo di esaltare sempre la migliore delle sue specificità.
Vedere vigneti che iniziano a lambire quote un tempo considerate inaccessibili o sfondare latitudini qualche secolo fa nemmeno immaginabili per questo tipo di coltivazione costituisce una prova tangibile che qualcosa, a livello climatico, sta davvero accadendo.
Le previsioni sul futuro, come accade sempre in queste circostanze, ovviamente si sprecano: secondo il prestigioso istituto di ricerca francese Inra (Institut National de la Recherche Agronomique), più della metà delle regioni vitivinicole del mondo è destinata a perdere le sue peculiarità in caso di aumento di due gradi centigradi della temperatura media del pianeta entro il prossimo trentennio; se entro il 2100 la temperatura media si alzasse di altri due gradi, le regioni vitivinicole destinate a scomparire diventerebbero all’incirca pari all’85% delle attuali.
Una vera ecatombe, alla quale si potrebbe però porre un freno senza dover per forza trasferire più in alto i vigneti: Benjamin Cook, ricercatore dell’Inra, è convinto che per frenare questo fenomeno sarà possibile aumentare la biodiversità fra le vigne e aumentare il numero di vitigni, concentrandosi in particolare su quelli autoctoni che meglio dimostrano di sopportare le modifiche ambientali. Una procedura che dovrà essere per forza di cose accompagnata da una massiccia campagna di sensibilizzazione dei consumatori: i loro palati dovranno abituarsi con gli anni a gusti diversi.
Sentori di Frutta fresca o cotta?
Certo, i detrattori si sono spinti a ipotizzare vini in cui il sentore della frutta fresca sarà sostituito da quello della frutta cotta, ma l’affinamento delle procedure di cantina potrà sicuramente limitare al massimo i danni organolettici. Anche perché in gioco c’è la credibilità di un intero sistema, che per decenni ha insistito sulle specificità del terroir come valore aggiunto a qualsiasi vino: impossibile ora decantare le medesime lodi con vini prodotti a decine, se non centinaia di chilometri di distanza, anche se in terreni dalle medesime caratteristiche geologiche.
Il territorio è diventato un punto di riferimento irrinunciabile per qualsiasi appassionato di vino: lo storytelling legato a ciascuna varietà si è formato nel corso di anni e anni di narrazioni. Impossibile ora buttare tutto a mare e ricominciare in altura facendo finta che non sia successo nulla. Così ecco chi prova a trasferire i propri vigneti sui pendii rivolti a nord, in modo da evitare alle uve il contatto diretto col sole, e chi tenta di far attecchire vitigni abituati a climi caldi, recuperati nelle solatie terre della Turchia, per sostituirli ai vecchi, non più in grado di sprigionare le stesse energie del passato. Il terroir e la sua narrazione vengono salvati a caro prezzo, quello del profumo e del sapore, destinati inevitabilmente a mutare nel corso dei prossimi anni.
Alcuni si sono spinti a dire che gli ultimi trent’anni sono stati i più straordinari della storia dell’enologia e che nulla, d’ora in avanti, sarà più come prima. Certo, pensare di vedere seduto ad una tavola rotonda sulle nuove frontiere del vino un danese come Ton Christensen, fondatore della prima cantina vinicola danese, la Dyrehøj Vingaard, non lo avrebbe mai potuto immaginare nessuno. Ma gli scandinavi stanno scalpitando, pronti a ricevere il testimone dai loro colleghi italiani, francesi e spagnoli, destinati ad un lento, ma inesorabile declino. A meno che qualcuno non pensi di trasformare skilift e piste da sci in nuovi, affascinanti vigneti per l’enologia che verrà.