Non so se ci sia qualche reale connessione con le bolle, ma la Côte des Bar, quell’unità che misura la pressione delle bollicine durante la spumantizzazione – i bar, appunto- ce l’ha addirittura nel proprio nome. Ce l’ha al pari di quei pregiudizi – al secolo, chiacchiere da bar- che individuano questa zona come quella in cui si producono champagne di serie b. Lo sciovinismo enologico francese pare non risparmiare neppure i propri simili, quelli, per intenderci, che producono champagne fuori dalla zona classica. La Côte des Bar tuttavia fa parte di un territorio più ampio, situato 150 Km a sud di Reims, chiamato Aube, che comprende anche Montgueux e un piccolo vigneto tra la Cote de Sezanne (zona a sud della Cote des Blancs) e Villenauxe-la-Grande. “Terroni”, li definirebbero alcuni in virtù della collocazione geografica, mentre altri invece apostroferebbero questi vini più come “terreni” o addirittura “terragni”, perché da queste parti la vigna, anche in un vino tecnico come lo champagne, incide ancora molto rispetto alle fasi di cantina. Lo dimostra la terra, qui differente da quella della zona classica, perché più simile a quella di Chablis, anche se non mancano quei terreni più pesanti di matrice argillosa. A questo si aggiungono esposizioni sempre diverse e boschi dall’essenziale funzione termoregolatrice tanto nei mesi caldi quanto in quelli freddi, oltre a una forte connotazione varietale. Sui circa 8000 ettari di estensione dell’Aube, l’80% delle uve appartiene alla varietà Pinot Nero. La prevalenza di questa tipologia va attribuita, peraltro, anche a una lunga disputa nelle aule dei tribunali che, all’inizio del ‘900, mise di fronte i vigneron della Marna con quelli dell’Aube, relativamente alla questione se far o meno rientrare questi ultimi nella Champagne viticola.
Nel 1926 la situazione trova una soluzione, tanto che i cugini diventano fratellastri – la consanguineità può ancora aspettare, diranno i produttori della Champagne con la lettera maiuscola – e si assiste alla specializzazione dell’Aube a suon di Pinot Nero. Via il Gamay, grappolo fino ad allora qui piuttosto diffuso, a tutto vantaggio di quel vitigno, sempre a bacca nera, che talvolta nella zona nobile della Champagne mostra, specie in annate fredde, una maturazione capricciosa con tutto quello che ne deriva. Da quell’iniziale destinazione di bacino di approvvigionamento del Pinot Nero persino da parte delle grandi maison, l’Aube ha sviluppato un’attitudine propria: quella di produrre champagne di vigna e non solo di cantina. La scelta ha presupposto il rimanere – in tutti i sensi – con i piedi per terra; meglio ancora se pulita. In tanti hanno deciso di abbandonare la chimica in vigna. Quando? In tempi non sospetti. Quali? Gli stessi, inizio anni ‘80, in cui la maggioranza dei produttori per ‘green’ intendeva la tonalità del denaro derivante dalla vendita di champagne prodotto a partire da una logica del “più velocemente lo produco e prima lo posso vendere”. Le ragioni di questa inversione di tendenza sono le più disparate. Dalle ortodossie, con tanto di profezie non poi del tutto campate in aria, di Jean-Pierre Fleury, alla realtà di un’affezione allergica ai prodotti chimici contratta negli anni ’70 da Jacques Beaufort, che da lì in poi converte le proprie vigne di Ambonnay e quelle che aveva piantato, con le stesse proporzioni varietali, a Polisy (Aube). I piccoli vigneron ragionano spesso su quantità contenute, che quindi riescono a gestire secondo queste dinamiche da pollice verde, ma tuttavia pare che da queste parti anche le cantine più grandi – parlo in questo caso di dimensioni – sembrano aver recepito il messaggio che lo champagne dell’Aube, per distinguersi, deve avere un link gustativo con il terroir. Anche in cantina la scelta produttiva spesso presuppone una gestione old school, con fermentazioni spontanee e utilizzo di legno. La fatica qui sembra quasi avere più valore della tecnica, ma se poi la tecnologia fornisce progresso ma non reale sviluppo, tanto vale, come accade nell’Aube, fare le cose come una volta. Anche le aziende più strutturate concordano con questa filosofia, come testimonia Drappier, che effettua la seconda fermentazione nei grandi, alle volte grandissimi (producono anche il Melchisédech da 40 litri), formati senza utilizzo, come ormai di prassi in champagne, del travaso: pratica molto più semplice e meno faticosa. Il risultato di tanto lavoro è spesso uno champagne dalla personalità vinosa e non solamente effervescente. I lustrini non sempre ci sono, anche se spesso nelle etichette prodotte nell’Aube si riscontra un gusto vero, spesso caratterizzato da quelle nervosità acide che alle volte non si risolvono mai del tutto, ma altre volte rappresentano un passpartout per i lunghi invecchiamenti. Alcuni, assaggiando gli champagne dell’Aube, li apostroferanno come grezzi, ma non fateci caso: sono solo chiacchiere da bar…