
C’è Chianti e Chianti: una convinzione che i produttori toscani nutrono da più di trent’anni e che soltanto ora sta per essere concretizzata in un’operazione finalizzata a rilanciare in grande stile uno dei brand vitivinicoli del nostro Paese più conosciuti al mondo.
Le bottiglie della Gran Selezione, ovvero il top della produzione, potranno essere griffate quest’anno con le specifiche Unità Geografiche Aggiuntive approvate dall’assemblea del Consorzio alla fine dell’estate a maggioranza pressoché bulgara.
Dopo un complicato percorso a livello burocratico, nel novembre scorso l’attesissima presentazione ufficiale: Castellina, Castelnuovo Berardenga, Gaiole, Greve, Lamole, Montefioralle, Panzano, Radda, San Casciano, San Donato in Poggio e Vagliagli potranno comparire in etichetta ad indicare ai consumatori il luogo specifico di coltivazione delle uve, ovviamente compreso all’interno del territorio consentito dal disciplinare.
Una puntualizzazione sostanziale e non certo formale: le colline del Chianti sono numerose e diverse, come diversi sono i terreni che danno il giusto nutrimento alle viti, caratterizzando con precisione le specificità organolettiche del prodotto finale, differenti nelle sfumature e per questo ancora più preziose.
Per non rinunciare a questo che tutti considerano un vero valore aggiunto, il Consorzio ha deciso di intraprendere quel percorso virtuoso che già i colleghi produttori del Barolo avevano ritenuto opportuno iniziare qualche tempo fa, con l’obiettivo di ampliare l’offerta al consumatore esperto attraverso l’individuazione di zone produttive dotate di singolari qualità.
«D’altronde – ha spiegato il presidente del Consorzio Giovanni Manetti – è il territorio a fare la differenza e il nostro è davvero vario: se è vero che il vino lo rispecchia come un’immagine fotografica in negativo, diventa importantissimo poter raccontare all’appassionato l’intera gamma delle sue sfumature, orientandolo attraverso il nostro simbolo di garanzia, quel Gallo Nero che gode di grande fama in tutto il mondo, e diversificando le proposte anche attraverso l’etichetta».
E non poteva essere scelto momento migliore per questa straordinaria operazione: il successo del Chianti è infatti certificato da dati di vendita più che lusinghieri, un +20% rispetto al 2020 stimolato soprattutto dalla Gran Selezione, vini che per disciplinare devono invecchiare almeno 30 mesi ed essere composti almeno per il 90% da Sangiovese.
Per ora il Consorzio ha deciso di limitare a questo settore l’applicazione delle UGA, ma non si esclude che il percorso possa essere intrapreso anche per il Chianti Classico e il Chianti Classico Riserva, che possono limitare l’invecchiamento rispettivamente a 12 e 24 mesi e devono essere realizzati con uve Sangiovese all’80%.
Chi critica l’operazione svilendola come una banale trovata promozionale non rende giustizia ad un processo, iniziato già qualche decennio fa e giunto in dirittura d’arrivo dopo che i 480 vignaioli aderenti al Consorzio hanno dovuto superare ostacoli di natura burocratica non indifferenti: «Le undici zone che verranno specificate in etichetta – ha argomentato ancora Manetti – permetteranno agli appassionati di interpretare con maggiore precisione l’impronta del territorio da cui proviene il vino che stanno assaggiando e ai produttori di indicare nel minimo dettaglio le caratteristiche del suolo, del clima e dell’identità territoriale del loro prodotto».
I francesi, che sui cru e i village hanno fortificato il prestigio del loro sistema vinicolo, l’avevano capito molto prima di noi. Ma il ritardo sarà recuperato e i vini di spessore del nostro Paese potranno in questo modo puntare a riassestare le coordinate di promozione e di vendita. D’altronde se è sul binomio territorio-vino che bisogna puntare con maggiore decisione per invitare i consumatori a scoprire l’uno tramite l’altro e viceversa, la parcellizzazione dell’area produttiva, nel pieno rispetto di tutti i parametri qualitativi, non potrà che ampliare l’offerta comunicativa e moltiplicare così le opportunità.
Di questo nel Consorzio sono tutti convinti, a partire dal presidente Manetti: «Fondamentale – ha detto – rimane preservare il contesto ambientale e paesaggistico perché l’obiettivo è poterlo raccontare al consumatore in tutte le sue sfaccettature».
E le undici aree individuate rispondono pienamente a questi requisiti. I numeri del Chianti Classico impongono d’altronde la necessità di selezionare nuove modalità di narrazione e comunicazione: 70mila ettari fra le province di Firenze e Siena, 10mila dei quali coltivati a vite, per una produzione annuale media di 270mila ettolitri, pari a circa 38 milioni di bottiglie. Stimolare la domanda attraverso la differenziazione dell’offerta diventa, per un giro d’affari di tali dimensioni, un’opportunità irripetibile: è per questo che i soci hanno approvato a larghissima maggioranza la proposta di modifica del disciplinare che a partire dal primo luglio prossimo potrà consentire, se l’iter procederà senza intoppi, di inaugurare i nuovi cru made in Toscana.
Una ricetta a cui guardano con interesse molti altri colleghi di regioni contigue, pronti a replicare la proposta se i primi risultati saranno anche solo incoraggianti. L’importante è, avvertono i produttori meno inclini agli entusiasmi, che si lavori in modo da evitare che altre denominazioni possano utilizzare il termine Chianti: non vorrebbero trovarsi un giorno davanti allo scaffale di un supermercato e vedere un’etichetta territoriale diversa da quelle ammesse per disciplinare non appartenente al Chianti Classico.
Echi di una vecchia polemica che forse le Unità Geografiche Aggiuntive potrebbero contribuire a sopire una volta per tutte.
[Questo articolo è un estratto del numero di Settembre-Ottobre 2022 de La Madia Travelfood. Leggi gli altri articoli online oppure abbonati alla rivista cartacea!]