È stata l’inaugurazione più attesa di quest’anno a Milano quella di Verso, il nuovo ristorante dei fratelli Capitaneo: non capita tutti i giorni che due storici secondi di un chef tristellato (anzi del più stellato di sempre in Italia: Enrico Bartolini) si mettano in proprio con un progetto così ambizioso e definito.
Lo showdown è caduto il 7 gennaio al numero ventuno di Piazza alla Scala, secondo piano: una location francamente pazzesca. Lo stabile è lo stesso in cui qualche anni fa cucinava Felice Lo Basso, un paio di piani più su; qui siamo al secondo, dove ai tempi si trovava un’enoteca che è stata completamente rimaneggiata.
I dioscuri vi si muovono con gesti diversi: il maggiore, Remo, più introverso e taciturno, ma con un lampo in fondo agli occhi; Mario, che ha tre anni di meno e un outfit sbarazzino, più sgargiante e mercuriale.
Chissà che nel piatto non lo diano a vedere. Anche perché in dote portano una formazione leggermente diversa, prima dello storico sodalizio con lo chef del Mudec, di cui sono stati braccio destro e ambidestro. Il padre Luigi, che oggi manda avanti un piccolo bar in Puglia con caffè e pasticcini, quando erano piccoli faceva il direttore di un albergo a Foggia.
Ed è qui che hanno mosso i primi passi, fra cerimonie e banchetti, mentre il genitore trasmetteva loro la cultura del prodotto.
Se Remo si è iscritto e diplomato all’alberghiero, Mario, appassionato di moda e di meccanica, è stato travolto dall’impazienza e si è buttato subito nella mischia. Eppure, in modo rocambolesco e forse un po’ incosciente, ha tagliato gli stessi traguardi, affascinato dalla figura autorevole dello “chef”, che iniziava a stagliarsi nell’immaginario collettivo. Quasi subito è partito per Merano, dove ha bazzicato una cucina più nordica, imparando a coprire tutti i punti di ristoro di una struttura ricettiva; poi per Sorrento, dove all’Antica Trattoria ha avuto per le mani una materia prima altissima. Ed è lì che si è ricongiunto con Remo, che nel frattempo si era diplomato.
Il loro primo fine dining è stato il Quisisana, dove hanno girato un po’ tutte le partite.
Mario se ne è allontanato brevemente, per un’esperienza all’Hostaria dell’Orso di Gualtiero Marchesi. Poi entrambi sono approdati al Trussardi alla Scala di Andrea Berton, che nel 2006 stava aprendo. Remo capopartita alle carni, Mario ai pesci. Le strade poi si sono separate di nuovo, senza mai perdere altitudine: Remo da Crippa, Mario in via Victor Hugo da Carlo Cracco e Matteo Baronetto. Nel complesso un bello spaccato della cucina italiana recente e dei suoi protagonisti.
È stato allora che i due sono finiti da clienti alle Robinie, incuriositi da quel giovane cuoco di cui sentivano parlare, che veniva da esperienze importanti con gli Alajmo. Remo si è appartato per parlargli e a giugno 2010 erano al Devero, entrambi nelle vesti di sous chef, data la brigata corta: quello che c’era da fare, si faceva. Sono stati dodici anni di una simbiosi professionale e creativa totale, che ha contribuito non poco al trionfo di Bartolini e all’edificazione del suo piccolo impero.
Con la soddisfazione di mantenere le due stelle al Mudec e poi di fare triplete. “Allora siamo andati a recuperare Enrico in macchina alla presentazione e abbiamo festeggiato come si fa in questi casi, brindando. Un po’ increduli, perché lo sognavamo ma non ce l’aspettavamo, come un limbo”.
Bartolini, formidabile talento nello scovare talenti, è il primo a intuire la loro stoffa e affidare loro responsabilità di peso; con lui imparano a gestire una squadra allargata, collaborando con chef di altri ristoranti del gruppo, intenzionati a cogliere il mood del Mudec, e si confrontano con gli aspetti imprenditoriali della professione. Mentre in cucina si tratta di dare la giusta importanza al prodotto, in modo che ogni elemento abbia senso. Sembrerebbe il posto dei sogni, per cui tanti giovani cuochi farebbero carte false.
Eppure i fratelli Capitaneo hanno altro nell’animo: uscire dal cono d’ombra, tirare fuori l’ambizione, insomma montare un posto loro. È quello che sognano dopo l’onirica terza stella.
A questo punto si tratta di ritrovare la vena rocambolesca, mettendo da parte tutte le comodità e i puntini sulle i di un decennio magico. I due si licenziano e iniziano a buttar giù, nero su bianco, il progetto di Verso, il loro ristorante, completo di business plan. Qualche imprenditore bussa alla porta, poi arriva la società Duomo 21 con cui l’accordo è immediato. Il progetto piace, la location è cosa fatta, il resto è carta bianca.
L’idea è quella di abbattere le barriere fra sala e cucina, con un team unico a svolgere le mansioni, per un’esperienza immersiva. Quindi gli chef table conviviali di ardesia o onice, che possono ricordare un bancone asiatico, anche se dietro si cucina sul serio e non ci si limita ad assemblare. Da Verso l’ospite può sbirciare le preparazioni e le cotture, con la finitura che viene quasi sempre compiuta di fronte a lui, in modo che possa apprezzare gli spessori anche geometrici del piatto. Mentre le luci perpendicolari svolgono una doppia funzione: illuminano, ma mantengono anche il calore, come al passe.
E praticamente ogni dettaglio è studiato per conciliare esigenze tecniche e comoda eleganza, con un ritmo incalzante di boiserie e acciaio, marmo e specchi fumé a collegare le aree, sotto il soffitto centenario super vincolato; più le opere scelte dal collezionista modenese Giorgio De Mitri in arrivo dallo street.
Sullo sfondo la cucina è stata progettata insieme a Cosimo Palmisano. “Negli anni abbiamo capito cosa ci serviva: il forno a carbone per cuocere o trasmettere il fumé, la pietra refrattaria per i lievitati e il pane, il frigorifero per la frollatura delle carni”.
Quali stoviglie Richard Ginori e una gamma croata, il cui disegno ad albero, bella guida per l’impiattamento, cita un classico dessert del Mudec, dopo un reset culinario integrale: qui non resta niente dei piatti che già conosciamo.
La cucina di Verso ha il vigore degli inizi e la consapevolezza di un lungo percorso già compiuto, insieme, e condividendo uno stile: il paradosso di una giovinezza matura, vigorosa eppure definita nei concetti, fin dal nome sull’insegna.
Poche parole nella lingua italiana sono più polisemiche di “Verso”, lemma che può rappresentare una voce verbale (alla prima persona singolare), un sostantivo che ha a che fare con la composizione letteraria, una preposizione che indica avvicinamento e con-vergenza.
E di fatto è una cucina versatile, nella quale confluiscono le esperienze compiute e le suggestioni maturate, soprattutto i diversi temperamenti dei due, Remo forse più propenso al gusto pieno, Mario in cerca di punti di rottura forti, appassionato anche di panificazione e di pasticceria (ma la generosità in bocca, di stampo tutto bartoliniano, regna sovrana in una cucina che sembra incorporare le leggi stesse dell’equilibrio).
I piatti nascono dal desiderio di valorizzare il lavoro di artigiani amici, come Guido Botticelli per il vegetale o Michele Varvara per le carni.
Al momento di cambiare menù, tutta la brigata di Verso si siede insieme per riflettere sui prodotti di stagione. Talvolta Remo provvede al gusto e Mario all’estetica, talaltra viceversa, oppure uno alla cottura e l’altro agli abbinamenti.
Poi si tratterà di uscire verso il cliente, per descrivere con i propri gesti il piatto.
Vi confluiscono tanti motivi della cucina contemporanea: qualche cineseria, ma meno che al Mudec; la brace, che però non diventa mai uno schema; similitudini di stampo baronettiano fra ingredienti lontani; citazioni colte, nostalgie pugliesi e richiami al territorio.
Senza paradigmi rigidi a ingessare un verso libero, che fluisce.
Da Verso si mangiano portate alla carta (tre per comparto) oppure il Nostro Percorso (6 corse a 130 euro).
Ad abbinare è Marco Matta, già sommelier del Mudec, di Casa Perbellini e Aimo e Nadia, che ha composto una carta di 450 referenze incontournables, dove la proporzione fra Francia e Italia è di 3 a 1, Champagne e Borgogna su tutti. Il pairing piatto per piatto non è fisso, ma sartoriale e costa 100 euro.
Sono già scrigni esatti di sapori gli appetizer, che cambiano in fretta. Possono essere una rosa marinata di barbabietola con caviale e storione; la deliziosa tempura di scampo e mais baby nell’ortica; il sorbetto al mais tostato e aceto con insalatina e brodo schiumato delle teste, per un doppio atto dello stesso binomio a temperature diverse.
Freschi, contrastati, versatili nel combinare motivi, fra cui occhieggia il territorio giallo polenta e verdone come la salvia dei grissini. Seguiranno via via la focaccia al lievito naturale e la pagnotta calda di farina tipo 2, appena sfornata. In accompagnamento il burro non può essere che doppio, come le anime del ristorante: sotto affumicato e colorato dal carbone vegetale, sopra al miele a mo’ di nube vaporosa.
L’ostrica viene posata sulle braci dentro la conchiglia, per un profumo che non cuocia, e servita con centrifugato piccante di crescione di acqua dolce, sorbetto di erbe e piselli. È l’ultimo piatto composto in cucina, poi ogni cuoco si porterà al tavolo il fornetto Mibrasa, che mantiene il calore e trasmette la sensazione di brace, per le sue coreografie.
È delizioso nel suo alacre movimento in bocca il gambero viola di Santa Margherita, servito nature con asparago crudo di Mambrotta, cedro al vapore, spadellato e frullato come condimento oppure lamellato e marinato quale velo, il sugo delle teste emulsionato all’extravergine per la sensazione di cotto e un’insalatina di acetosella e germogli di ravanello a rinfrescare.
Una divagazione sul motivo italiano del crostaceo al limone dall’equilibro esemplare fra spinte e controspinte, come un tiro alla fune immobile. Qui Matta mesce il Pagus Camilla 2017 di Poggio al Tesoro, riserva di Vermentino che è un tripudio di fiori e piacevolezza, strutturato e complesso in bocca.
Più versatile la seppia affettata sottilissima e condita con midollo alla piastra, lamine di black angus frollato mille giorni, per il paradosso dell’eleganza quasi dolce, foglie e fiori di cappero, emulsione di mare con tentacoli e olio. Qui la cucina manifesta la sua vena barocca, per convergenza, appunto, anziché per sottrazione.
Torna nell’animella con bernese all’infusione di caffè, sedano rapa cucinato intero sotto i carboni, in dadolata del nucleo, animella di cuore perfettamente spadellata, ricci di mare e insalatina. Dove il binomio ricci/caffè è una citazione omaggio allo spaghetto di Carlo Cracco, ma la struttura del piatto è data dalla similitudine baronettiana fra le testure del vegetale e della frattaglia.
È squisito lo spaghettone Valdoro risottato con salsa di carapace del granchio, la polpa delle chele alla base, appena piastrate e condite al finger lime, la crema amaricante di marasciuoli o tarassaco, la lattuga di mare ripassata nel burro sempre al granchio, il finger lime e l’alga disidratata per il gioco delle consistenze. Un’altra esplosione di gusto italiano, che nell’impiattamento al tavolo evidenzia la sua studiata verticalizzazione, reminiscente dei risotti bartoliniani.
E la mente torna al Mudec con i bottoni (in realtà introdotti da Carlo Cracco) ripieni di emulsione di funghi di stagione (morchelle e finferli oppure porcini); sopra un gel di anice stellato, cubetti di anguilla cotta alla brace e finocchietto fresco per un doppio anisato; il tutto in un brodo intenso di pollo infusionato agli agrumi, per una sensazione di pasta ripiena della tradizione italiana, ma con diversa freschezza, aromaticità, dinamicità in bocca.
Strepitosi poi i secondi, che mettono al centro delle loro convergenze la materia nella sua espressione pura.
Quindi il carré delle Dolomiti Lucane di Michele Varvara cotto al rosa e intorno il gioco dei divertimenti: il taglio fra spalla e collo più fondente, lo spiedino sul rosmarino di cuore, fegato e gnummareddi (cotti separatamente e poi assemblati), l’albicocca ripiena di peperone di Senise, per una sensazione di tajine, e il melone sempre ripieno sul fondo classico.
Oppure il piccione francese, con il petto cotto rosato sull’osso, intorno un altro spiedino, ma su profumatissima lavanda in sinergia aromatica perfetta, composto di filettino, cuore e fegato, il fondo al Porto e amarene con la loro crema, il paté di funghi e foie gras, i finferli e la julienne variopinta di gambi di bietoline a dare freschezza e portare acqua. Il vino è un Bordeaux Château Beychevelle 2015, Saint-Julien fruttato e speziato, potente, elegante, ma mai invadente.
Il predessert ricompone la polpa di fico fiorone con la sua profumatissima foglia in sorbetto, sopra un biscuit all’extravergine, più carpione e mosto a ripulire.
Chiude in grandeur un soufflé che omaggia Andrea Berton, al cioccolato ma in versione after eight, con la menta nella crema, nel gelato, nell’insalatina per un contrasto caldo/freddo anche pseudocalorico e un commiato profumato dal pasto.
[Questo articolo è tratto dal numero di settembre-ottobre 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]