Tempo di retromania, tempo di revival delle grandi maison: Del Cambio a Torino, resuscitata da un imprenditore illuminato, Gustavo Denegri; ma anche i leggendari Balzi Rossi di Pina Beglia, brillantissimi sotto la regia di Enrico Marmo, e i 12 Apostoli di Verona, anch’essi in piena continuità familiare grazie alla famiglia Gioco. Dal fondatore Antonio al figlio Giorgio, chef che raggiunse le due stelle, passando per un altro Antonio e per il giovane Filippo, tutti appoggiati a solide spalle femminili, il rinnovamento ha da poco bussato alle porte: la quarta generazione non è quella esiziale dei Buddenbrook di Thomas Mann, ma segna il momento della ripartenza per una maison caduta lungamente in letargo.
Fino al 1990 sono state due le stelle sotto cui transitavano salmoni in bellavista, nel loro sarcofago di pasta dorata, carrelli fumanti e un’imperdibile pasta e fagioli. “Tanto che a proposito della scomparsa di Marchesi, mi è tornata in mente una singolar tenzone che lo ha visto contrapposto a mio padre a Sanremo, nella disfida fra ‘vecchia’ e ‘nuova’ cucina. Segnò la svolta: i più accreditati giornalisti gastronomici italiani decretarono vincitori i piatti del primo, anche se i nostri tornavano ben puliti in cucina. E prima che questo accadesse un flash: sono fermo, affiancato da una macchina uguale alla mia sulla strada, guardo dentro e vedo Marchesi che saluta. Identiche le vetture, opposte le direzioni per la ristorazione italiana”, racconta oggi Antonio.
L’ambiente in tutto questo è rimasto praticamente invariato, a parte la sapiente regia delle luci e i separé velati fra i tavoli rotondi. I prodromi del ristorante, ai tempi locanda con cucina, risalgono al 1700, ma le mura sono quelle trecentesche di un palazzo affacciato su un vicolo del centro storico. Atmosfere ripescate dagli affreschi non originali, forse per questo ancor più suggestivi: sono firmati da Pino Casarini, scenografo teatrale dell’Arena di Verona, che sulla mura scabrose ha riprodotto le scene di un’edizione di Romeo e Giulietta datata 1947. Ne risulta un concentrato di veronesità: negli anni ’70 i 12 Apostoli sono stati all’avanguardia nella riscoperta delle tradizioni venete e perfino rinascimentali grazie alla biblioteca sterminata di Giorgio, affiancato nello studio da Angelo Berti della Taverna degli Artisti di Revere. Spessori che sprofondano ulteriormente nel tempo grazie alla scoperta casuale di reperti archeologici, avvenuta ristrutturando una scala.
CAMMINARE SULLA STORIA
A spese della famiglia Gioco è stata così riportata alla luce della cantina una strada romana fra robusti basamenti. Cosicché l’impressione è quella di camminare sulla storia. Sono le pietre fra le quali ogni anno una giuria prestigiosa conferisce il premio 12 apostoli a un giornalista che si è distinto: l’ultima volta, la quarantesima, a Massimo Recalcati. Mentre in sala si discetta di D’Annunzio e Sandro Penna, Zanzotto e Pascoli.
“Cambiare per restare se stessi”, potrebbe essere l’ultimo motto da affrescare alle pareti fra le scene amorose di Casarini. La conversione alla contemporaneità dei 12 Apostoli è caduta due anni fa a opera di Filippo: è stato lui, terminati gli studi in antropologia, a chiamare all’opera uno dei talenti misconosciuti della cucina italiana, Mauro Buffo, nome familiare sulle bocche di tanti colleghi. Il curriculum è dei migliori: prima l’Albereta di Gualtiero Marchesi, Crippa e Lopriore, seguiti da Berton; poi 3 anni alle Calandre da un genio chiamato Massimilaino Alajmo e altrettanti in Spagna, presso elBulli di Ferran Adrià.“Volevo partire da un’esperienza di cucina classica, quindi Marchesi è capitato all’uopo. Poi, prima dell’avanguardia, sono passato per una via di mezzo: un italiano, ma eclettico e moderno. È successo che una sera a Rubano è venuto a cena Adrià, che conoscevo da qualche corso, e mi ha detto che avrebbe avuto posto a marzo. Così ho completato la strada che intendevo percorrere”.
MISTERO BUFFO: CLASSICITÀ CONTEMPORANEA
Soprattutto Buffo è veneto fino all’ultimo ottavo, capace come nessuno di contemporaneizzare i sapori di sempre, costruendo un piano sopraelevato sull’architettura già stratificata della casa e una passerella con la clientela storica del ristorante. La sua è una cucina comfort evoluta, dall’eleganza tutta classica e della malizia tecnica nascosta. L’uomo giusto al posto giusto, farà grandi cose. In stagione è imperdibile la selvaggina, per esempio la lepre, che Buffo serve in salmì con chips di polenta, gelatina di mela verde e salsa al foie gras oppure interamente transustanziata in un consommé, addizionato di whisky e aromatizzato all’arancia, insieme a uno strepitoso sandwich di pandispezie alla caccia con gelatina di Recioto. Un boccone regale, classico nel suo gioco di rimandi eppure moderno nella fruizione finger & ballon, più che un predessert un “postsalato” che scivola verso le lusinghe del fine pasto. La preparazione è complessa: “Il selvatico viene marinato come un salmì classico, poi lo passiamo sottovuoto per una notte e raccogliamo i succhi che rilascia. A questo punto lo rosoliamo nuovamente e prepariamo un consommé con il liquido precedente, che chiari chiamo con altra polpa di lepre. Il risultato è un doppio consommé con passaggio di una notte sottovuoto”.
La cacciagione arriva se possibile dal circondario, come i piccioni; ma le materie locali percorrono sempre una corsia preferenziale. “Cerco di usare eccellenze italiane, oltre che venete, senza andare all’estero per scelta. I latticini arrivano dai monti Lessini, mentre le erbe spontanee sono quelle dell’orto botanico del Monte Baldo, dove si raccolgono levistico e fiori di topinambur, resine e germogli. Il pesce è adriatico o sardo, le farine e la frutta del Veronese, le lumache di Sant’Andrea”. Ne risultano tre menu degustazione: quello dedicato ai piatti storici dei 12 apostoli, appena svecchiati, con le sue 6 corse a 60 euro; il degustazione d’autore, passibile di variazioni quotidiane, che ne conta 7 a 80 euro come l’italiano, dedicato a evergreen reinterpretati, fra cui il vitel tonné. La carta dei vini è imprevedibilmente succinta ma non priva di lusinghe.
I PIATTI IN ULTIMA ANALISI
Tempo di retromania, tempo di revival delle grandi maison: Del Cambio a Torino, resuscitata da un imprenditore illuminato, Gustavo Denegri; ma anche i leggendari Balzi Rossi di Pina Beglia, brillantissimi sotto la regia di Enrico Marmo, e i 12 Apostoli di Verona, anch’essi in piena continuità familiare grazie alla famiglia Gioco. Dal fondatore Antonio al figlio Giorgio, chef che raggiunse le due stelle, passando per un altro Antonio e per il giovane Filippo, tutti appoggiati a solide spalle femminili, il rinnovamento ha da poco bussato alle porte: la quarta generazione non è quella esiziale dei Buddenbrook di Thomas Mann, ma segna il momento della ripartenza per una maison caduta lungamente in letargo.
Fino al 1990 sono state due le stelle sotto cui transitavano salmoni in bellavista, nel loro sarcofago di pasta dorata, carrelli fumanti e un’imperdibile pasta e fagioli. “Tanto che a proposito della scomparsa di Marchesi, mi è tornata in mente una singolar tenzone che lo ha visto contrapposto a mio padre a Sanremo, nella disfida fra ‘vecchia’ e ‘nuova’ cucina. Segnò la svolta: i più accreditati giornalisti gastronomici italiani decretarono vincitori i piatti del primo, anche se i nostri tornavano ben puliti in cucina. E prima che questo accadesse un flash: sono fermo, affiancato da una macchina uguale alla mia sulla strada, guardo dentro e vedo Marchesi che saluta. Identiche le vetture, opposte le direzioni per la ristorazione italiana”, racconta oggi Antonio.
L’ambiente in tutto questo è rimasto praticamente invariato, a parte la sapiente regia delle luci e i separé velati fra i tavoli rotondi. I prodromi del ristorante, ai tempi locanda con cucina, risalgono al 1700, ma le mura sono quelle trecentesche di un palazzo affacciato su un vicolo del centro storico. Atmosfere ripescate dagli affreschi non originali, forse per questo ancor più suggestivi: sono firmati da Pino Casarini, scenografo teatrale dell’Arena di Verona, che sulla mura scabrose ha riprodotto le scene di un’edizione di Romeo e Giulietta datata 1947. Ne risulta un concentrato di veronesità: negli anni ’70 i 12 Apostoli sono stati all’avanguardia nella riscoperta delle tradizioni venete e perfino rinascimentali grazie alla biblioteca sterminata di Giorgio, affiancato nello studio da Angelo Berti della Taverna degli Artisti di Revere. Spessori che sprofondano ulteriormente nel tempo grazie alla scoperta casuale di reperti archeologici, avvenuta ristrutturando una scala.
A spese della famiglia Gioco è stata così riportata alla luce della cantina una strada romana fra robusti basamenti. Cosicché l’impressione è quella di camminare sulla storia. Sono le pietre fra le quali ogni anno una giuria prestigiosa conferisce il premio 12 apostoli a un giornalista che si è distinto: l’ultima volta, la quarantesima, a Massimo Recalcati. Mentre in sala si discetta di D’Annunzio e Sandro Penna, Zanzotto e Pascoli.
“Cambiare per restare se stessi”, potrebbe essere l’ultimo motto da affrescare alle pareti fra le scene amorose di Casarini. La conversione alla contemporaneità dei 12 Apostoli è caduta due anni fa a opera di Filippo: è stato lui, terminati gli studi in antropologia, a chiamare all’opera uno dei talenti misconosciuti della cucina italiana, Mauro Buffo, nome familiare sulle bocche di tanti colleghi. Il curriculum è dei migliori: prima l’Albereta di Gualtiero Marchesi, Crippa e Lopriore, seguiti da Berton; poi 3 anni alle Calandre da un genio chiamato Massimilaino Alajmo e altrettanti in Spagna, presso elBulli di Ferran Adrià. “Volevo partire da un’esperienza di cucina classica, quindi Marchesi è capitato all’uopo. Poi, prima dell’avanguardia, sono passato per una via di mezzo: un italiano, ma eclettico e moderno. È successo che una sera a Rubano è venuto a cena Adrià, che conoscevo da qualche corso, e mi ha detto che avrebbe avuto posto a marzo. Così ho completato la strada che intendevo percorrere”.
Soprattutto Buffo è veneto fino all’ultimo ottavo, capace come nessuno di contemporaneizzare i sapori di sempre, costruendo un piano sopraelevato sull’architettura già stratificata della casa e una passerella con la clientela storica del ristorante. La sua è una cucina comfort evoluta, dall’eleganza tutta classica e della malizia tecnica nascosta. L’uomo giusto al posto giusto, farà grandi cose. In stagione è imperdibile la selvaggina, per esempio la lepre, che Buffo serve in salmì con chips di polenta, gelatina di mela verde e salsa al foie gras oppure interamente transustanziata in un consommé, addizionato di whisky e aromatizzato all’arancia, insieme a uno strepitoso sandwich di pandispezie alla caccia con gelatina di Recioto. Un boccone regale, classico nel suo gioco di rimandi eppure moderno nella fruizione finger & ballon, più che un predessert un “postsalato” che scivola verso le lusinghe del fine pasto. La preparazione è complessa: “Il selvatico viene marinato come un salmì classico, poi lo passiamo sottovuoto per una notte e raccogliamo i succhi che rilascia. A questo punto lo rosoliamo nuovamente e prepariamo un consommé con il liquido precedente, che chiarifichiamo con altra polpa di lepre. Il risultato è un doppio consommé con passaggio di una notte sottovuoto”.
La cacciagione arriva se possibile dal circondario, come i piccioni; ma le materie locali percorrono sempre una corsia preferenziale. “Cerco di usare eccellenze italiane, oltre che venete, senza andare all’estero per scelta. I latticini arrivano dai monti Lessini, mentre le erbe spontanee sono quelle dell’orto botanico del Monte Baldo, dove si raccolgono levistico e fiori di topinambur, resine e germogli. Il pesce è adriatico o sardo, le farine e la frutta del Veronese, le lumache di Sant’Andrea”. Ne risultano tre menu degustazione: quello dedicato ai piatti storici dei 12 apostoli, appena svecchiati, con le sue 6 corse a 60 euro; il degustazione d’autore, passibile di variazioni quotidiane, che ne conta 7 a 80 euro come l’italiano, dedicato a evergreen reinterpretati, fra cui il vitel tonné. La carta dei vini è imprevedibilmente succinta ma non priva di lusinghe.
Fra i classici di Giorgio, appena alleggeriti, risaltano gli straccetti di pasta con la pastissada di cavallo, la pearà, icona cittadina in sineddoche con le sue carni (cotechino avvolto nella fesa di vitello al vapore, cappello del prete brasato, punta di petto di vitello arrosto) e la pasta e fagioli classica, fra le più celebrate d’Italia, con tanti odori e in luogo dei ritagli il Vinappeso, “culatello” di maiale del Monte Baldo marinato nell’Amarone.
Gli antipasti d’autore pescano nella memoria gustativa, variando le presentazioni. Vedi la frittatina sifonata (foto sotto, a destra) e finita in forno, parallelepipedo spumoso servito con tartufo estivo e coulis di aglio orsino, entrambi del Monte Baldo. A conferirle corpo e struttura, profumi e acidità è la salsa sempre al Vinappeso, sobbollito fino a ottenere un brodo e poi un ristretto, addizionato al Bimby di panna e Parmigiano. Oppure le lumache, stufate e spadellate con il classico complemento di burro e clorofilla di prezzemolo, più succo di limone, erba cipollina e scalogno crudo; su ciascuna di esse è adagiato un petalo di rosa di Gorizia in agrodolce, più pesto di rucola alla senape montato all’olio, tipo maionese, cubetti di Monte Veronese, pinoli tostati, foglie di romice sanguineo e cumino selvatico. E ancora il salmerino del lago di Garda (foto qui sopra), marinato e leggermente affumicato come se fosse salmone, servito a bâtonnet con citronette, uova di salmerino fresche e scaldate, frullate e montate come una maionese all’olio, cialda di pelle croccante. 100% salmerino, o quasi, contrastato nella grassezza e nella sapidità da una cascata di acetosella. Riprendono un formato della casa, ripassato per la trafila marchesiana, gli straccetti di pasta all’uovo, mantecati con burro e parmigiano. Sono conditi con uova embrionali di gallina grigia di Verona, passate leggermente in salamoia e al vapore, per una consistenza più soda, una zuppetta di asparagi bianchi di Verona ottenuta dalla purea allungata con il centrifugato e una salsa spumeggiante del centrifugato stesso, cannella e noce moscata. Un matrimonio indissolubile eppure costantemente rinnovato fra testure vischiose e grassezze.
Il piccione è approntato secondo la tecnica Buffo: la carcassa con i petti è rosolata con burro, aglio e timo, poi passata in forno a 140 °C per un minuto e mezzo, a tre riprese, inframezzate da riposi altrettanto brevi. In questo modo l’esito è intermedio fra Roner e classica arrostitura, con la pelle croccante, il gusto caramellato di arrosto e la polpa rosa; segue la gratinatura con una crosta di erbe del Monte Baldo, lardo e pane in cassetta. Completano il piatto la polpettina impanata e fritta delle coscette cotte a parte con le rigaglie crude, la riduzione di vino rosso e anice stellato, le fave, il fondo di piccione e il cipollotto di Tropea cotto col sale bilanciato.
Chiude la bavarese al caramello salato con liquore d’erbe del Monte Baldo, gelato di zucca di Nogara, chips di Isomalto e kumquat confit, in equilibrio fra dolcezza, sapidità, amaro e note agumate.
RISTORANTE 12 APOSTOLI
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