Primi anni ’80, museo romano: Carlo Maria Mariani stacca dal muro il neon dell’arte concettuale e appende al chiodo dell’estetica la sua tela, dipinta a olio su legno con la pennellata dei grandi maestri d’autrefois. L’artigianalità del gesto e la riflessione sulla bellezza nel tempo ispirano studiosi come Maurizio Calvesi, che teorizza la corrente dell’Anacronismo, Italo Musso, che scrive di Pittura colta, e Italo Tomassoni, teorico dell’Ipermanierismo. Come ipermanierista appare oggi qualche giovane cuoco, che coglie nell’anacronismo l’energia della provocazione, tornando al rigore della forma e della tecnica di esecuzione contro la “tradizione del nuovo”. Quella coazione a inventare che ha smontato un pezzo dopo l’altro il grande edificio della cucina classica.
Matteo Lorenzini è stato probabilmente il primo, quando ancora un fondo faceva storcere il naso. “Perché sono sempre stato innamorato della Francia e dei suoi grandi cuochi, sognavo Ducasse e Robuchon come i miei coetanei appendevano i poster di Messi e Del Piero”. Da un anno rende loro omaggio al Se.Sto on Arno, ristorante gastronomico del Westin di Firenze, di cui cura anche i piccoli eventi in una saletta da cui si gode la vista più bella di Firenze, mentre il servizio in camera e le colazioni sono appannaggio di un’altra cucina. Con lui 12 cuochi (fra cui i pasticcieri Luca Tempestini e Simone Dimotta), in parte ereditati dalla precedente gestione di Entiana Osmenzeza, volata al Gurdulù, in parte pescati da altri indirizzi prestigiosi della città. Una squadra insolitamente folta e addestrata per uno chef di appena 31 anni, per la prima volta in condizione di servire una cucina complessa e compiuta anche grazie alle capacità di spesa di una grande struttura. Le ambizioni sono importanti, l’occasione probabilmente irripetibile.
Accomodato sul divanetto viola vista Arno, Lorenzini racconta come ci è arrivato: “Ero un bimbo irrequieto e l’unico modo per tenermi fermo era mettermi a legare gli arrosti o tirare i pici. A Siena però non c’era l’alberghiero, quindi ogni giorno dovevo alzarmi prima delle sei e tornavo alle quattro di pomeriggio. Nel frattempo ho iniziato a fare boxe, in tutto 7 anni di cui 3 a livello agonistico, da peso welter. Ho smesso perché era incompatibile con la cucina: ricordo che andavo a gareggiare nelle pause di giornate lavorative da 14 ore. Alla seconda sconfitta consecutiva ho appeso i guantoni, anche se ogni tanto torno ad allenarmi. Perché amo la sfida con me stesso: salire i quattro gradini che separano il ring dal resto del mondo resta uno dei ricordi più belli della mia vita.
È stato un cuoco da cui ho lavorato a contagiarmi. Mi parlava dei ristoranti francesi, dei luoghi dove era nata la grande cucina. Cosicché il mio fine è diventato lavorare al Louis XV, ma per realizzarlo sono stati necessari una serie di passaggi. Per due anni ho affiancato Gaetano Trovato da Arnolfo, un grande artigiano che ha cominciato da zero trent’anni fa e che interpreta tuttora a meraviglia la nouvelle cuisine. È stato lui ad alzare la cornetta per sottoporre la mia candidatura a Frank Cerutti, chef di Ducasse, che però non mi considerava ancora pronto, quindi ha suggerito che io passassi per un po’ da un cuoco che era stato in brigata, Frédéric Garnier a Saint-Paul-de-Vence, per imparare il francese e soprattutto le basi. Quando sono arrivato mi sentivo fortissimo invece sono ripartito da zero, perché nonostante uno stage da Perbellini era tutto un altro mondo.
Finché un giorno non mi è arrivata una lettera molto cerimoniosa griffata Louis XV e firmata Ducasse con il lasciapassare per Montecarlo. Un piccolo traguardo, in realtà un punto di partenza. Nel corso di tre anni scarsi ho visti tanti ragazzi arrivare e poi partire; come tutti ho iniziato dal garde-manger, dove qualsiasi dettaglio era una spia delle mie attitudini: come appoggiavo il tagliere sul piano, sistemavo il cestino della spazzatura oppure allineavo i coltelli. Perché è da queste cose che nasce il rigore per affrontare una carota o una pièce de veau. Lucidavo il rame, pulivo l’insalata, poi ho fatto il giro delle brigate, finendo chef de partie alle carni e ai pesci. Quando lo chef Pascal Bardet se ne è andato, in tanti come me hanno scelto altre strade. La mia conduceva alle Crayères di Philippe Mille, dove mi sono fermato per un anno. Le differenze erano enormi con Ducasse, più essenziale, spontaneo, meno geometrico; anche se io cerco di mettere più tecnica nel piatto. Diciamo il 50%, come il prodotto. Ho iniziato a farlo alle Tre lune con Ilaria di Marzio e Tommaso Verni: c’era questo ristorante bello in campagna, con un affitto favorevole, e ci siamo buttati. Abbiamo messo sul tavolo 3000 euro a testa, comprato 600 euro di pentole all’Ikea ed è arrivata subito la stella Michelin”.
Dopo un passaggio al nuovo Mandarin di Antonio Guida e qualche puntata in Oriente, il bandolo è tornato in mano un anno fa a Firenze. “Ma la mia cucina non è cambiata. Ho sempre creduto che certe cose non potessero passare di moda, la musica classica come la cucina francese, anche se tutti andavano in pellegrinaggio in Spagna. Quando sono arrivato al Louis XV, per prima cosa mi sono seduto nell’acquario dove mangia Ducasse, assistendo alle danze della brigata. E sono rimasto scioccato da quel che resta il piatto della mia vita: le verdure al tartufo nero, con gli ortaggi liguri ‘risottati’, cioè glassati nel fondo bianco, l’Aceto Balsamico e l’olio da olive taggiasche. Una tecnica che uso anch’io, perché l’acqua lava l’ingrediente. I fondi che preparo sono gli stessi di Ducasse:
fondo bianco, consommé, jus di vitello e di pollo, fumetto di astice e sampietro, nage di molluschi… Poi magari la finitura delle salse cambia. Non uso panna, al massimo poca crème fraîche, burro di Normandia, perché il nostro è un sottoprodotto della casearia, e olio ligure o del Garda. Le verdure arrivano dal mercato di Novoli, le carni da quello di San Lorenzo; capesante, ostriche, astice blu e foie gras dalla Francia; il granchio dalla Norvegia”.
Il risultato si fa gustare nel menu Sesto, con 4 portate a 90 euro, e nel nuovo Gusci, composto di 7 portate a 120 euro, che concretizza una vecchia intuizione. Carapaci, conchiglie e cocotte lutée aiutano a individuare il protagonista unico del piatto, entro il quale sprofonda la lama dell’elaborazione, senza salse appannanti. Ma corrispondono anche a una tecnica di cottura, improntata al massimo rispetto dell’ingrediente, per così dire implosiva, con l’accento sui profumi e un accudimento sentimentale della materia: si parte dal prodotto, con i connotati in evidenza, e vi si torna al termine del viaggio culinario. Rispetto al passato la cucina si è fatta più leggera, nervosa e mediterranea, neoclassica anziché pedante nella variazione-citazione di salse e abbinamenti codificati; soprattutto ha guadagnato in definizione gustativa, con una padronanza spavalda dell’acidità attraverso mix di aceti o agrumi. Il capitolo dei primi piatti in particolare è stimolante, quasi un veicolo per ritrovare l’Italia senza dover uscire dal paradigma francese.
La carta dei vini è in progress, con aperture sul fronte naturali per spiazzare la grandeur; il pane arriva da David Bedu.
Nel guscio sono servite le ostriche, glassate al burro e alghe, servite con perle di consommé alla tapioca e blanquette di porri, adagiate su un letto di trucioli di ciliegio, timo e pepe in grani per la componente olfattiva; oppure il riccio con royale al corallo di astice, emulsione di finocchio selvatico e finger lime, che spinge al massimo sapidità e acidità. Sublimi i cannolicchi marinati con lime, burro e acqua di vongole, scottati ed emulsionati con uova di salmone, serviti nella cornice di bambù che riproduce il guscio con cipolle cotte in acqua di vongole, succo di agrumi e salsa di soia, perle di barbabietola all’aceto di riso e yuzu, finferli, erbe e zeste. Piatto bilanciatissimo, dal gioco di testure incantevole, che mette a frutto la lezione orientale.
È invece intriso di crudeltà nordeuropea l’osso da midollo farcito di tartara iodata alla soia e katsuobushi, royale del midollo stesso, dalla consistenza quasi di maionese, salicornia e caviale siberiano al posto del classico tuorlo: nel rispetto delle consistenze, un’esplosione di mineralità su veicolo grasso. Delicatissimo il granchio cotto à la nage, condito con crème fraîche e limone, poi servito nel suo guscio con brunoise di daikon e mela verde, spuma di yogurt greco, yuzu, coriandolo ed estratto di daikon, un anello di gelatina di sedano e caviale osietra. Ma c’è anche la classica scaloppa di foie gras di oca servita nella foglia di fico con radici cotte sottovuoto, sotto sale, al cartoccio, acini e fichi al sugo di agresto: profumi esplosivi e cotture millimetriche.
I primi piatti, allora. Per esempio le pappardelle ripiene di paté di fegatini, glassate in un condimento di fondo bianco, jus di pollo, pasta di limoni sotto sale e aceto di Sherry, poi arrotolate a nastro sul piatto attorno a un tentacolo di polpo arrostito in padella.
Un concentrato di Toscana fresco e profondo, antico e nuovo.
L’astice blu, sbollentato, immerso nel burro nocciola a 50°C e arrostito, piacevolmente nervoso, viene servito con jus de la presse al suo corallo e lemongrass, indivia alla pasta di pompelmo e ravanelli allo zucchero di canna. Ma l’apoteosi è la lièvre à la royale in due servizi, che alleggerisce leggermente il modello di Ducasse. Prima la terrina cotta dentro stampi a forma di pietra preziosa nel tartufo nero pregiato, vero diamante della terra, poi la lepre, banco di prova di ogni chef classicheggiante, glassata come una torta da scaffale, potente nella congiunzione di ematico, maiale e rigaglie. Fin quasi a ritrovare il genius loci nella prossimità al biroldo e alla norcineria al sangue: una Toscana infiltrante, indiretta, preterintenzionale. Chiudono le finte noci di cioccolato e caffè con gelatina di whisky, che rinnovano i piaceri dell’after dinner.