Si muove instancabile fra sinuosi ferri torti, teche di mirabilia e lamiere di ferro corrose, riunioni al ministero, pentole fumanti e cooking show la cresta rosa di Cristina Bowerman. Cuoca che più di ogni altra si è adoperata per smentire i cliché della romanità e smontare le ovvietà sul femminile, sgusciando per i vicoli sopra una bicicletta fluo, incalzante come la sua parlantina; gli occhi scuri che dardeggiano quali briganti nella notte, pronti a rapinare tour-de-main in qualsiasi altrove si posino.
“Da Cerignola a New York”, si intitola il suo libro. Perché la strada per arrivare a Vicolo de’ Cinque, dove da 11 anni parcheggia nel suo Glass, ha attraversato l’oceano e un florilegio di mestieri prima della frenata finale. “C’è stata innanzitutto la pasticceria di mio nonno Domenico, tuttora celebre in Puglia per la finanziera e i mostaccioli; ma ho fatto appena in tempo a conoscerla. La mia era la classica famiglia dove si cucinava e mi è sempre piaciuto mangiar bene, anche se non avrei mai pensato di fare la cuoca. Fin quando non ho capito che poteva essere una professione, non un semplice lavoro manuale, vivendo negli Stati Uniti, dove questo processo stava avvenendo in largo anticipo sull’Italia”.
Dopo il liceo linguistico e la laurea a pieni voti in giurisprudenza a Bari, il biglietto da turista per gli States è di andata e ritorno. “Ma nel giro di pochi giorni mi sono sentita a casa, come se fossi nata e cresciuta lì. Volevo vivere e pensare come loro, tanto che ho conservato il cognome del mio primo marito. Insomma ero Alice nel paese delle meraviglie. Mi sono messa alla ricerca di un alibi per restare e l’ho trovato nel perfezionamento dei miei studi legali a San Francisco, che ho abbandonato appena ho trovato una sistemazione. Venduto il vendibile, scovato un appartamentino, ho calcolato il fabbisogno per vivere e cercato un lavoretto. Ed è stato così che ho compiuto la mia prima esperienza in cucina, presso un ristorante libanese. Sono seguiti 15 anni sempre a San Francisco, nel sud della California e a Austin, in Texas, durante i quali ho lavorato come disegnatrice grafica, anche per la ristorazione. E ho approfondito lo studio della cucina laureandomi in Culinary arts alla scuola del Cordon bleu. Nel frattempo mangiavo tutto fuorché italiano, in particolare prediligevo la cucina giapponese e quella vietnamita. Un interesse che non ho mai smesso di coltivare viaggiando: sono affascinata da tutte le cucine e so che non ne esista una migliore. Appena arrivo in un luogo cerco di scoprire cosa c’è da rubare: mio padre ripeteva che ero come San Tommaso e che la curiosità mi avrebbe ucciso”.
L’intenzione è quella di fermarsi pochi mesi quando nel 2006 approda al Glass di Fabio Spada, officina riconvertita al design dalla sofisticata atmosfera post-industriale, assediata dal pressappochismo del roman sounding in un quartiere per turisti. La cucina che abbozza al suo primo incarico da chef però è tutta sua: classica nelle basi grazie alla scuola francese (“perché la penso come loro: i fondi sono le fondamenta di ogni piatto e non possono mancare in linea, anche se è possibile giocare, mescolando pollo e manzo o usando la carne sul pesce”); americana nell’impronta, per il melting pot delle contaminazioni e specifici tratti gustativi come l’esaltazione dell’umami; senza mai perdere di vista l’Italia. Una rivoluzione per la scena romana, su cui doveva ancora abbattersi l’onda fusion dei Genovese e degli Apreda. Nella sua impresa stilistica è agevolata dalla formazione atipica, quasi da autodidatta: sul curriculum ci sono appena due stage, da David Bull e Angelo Troiani; mentre la forma mentis universitaria comporta la capacità di apprendere ad apprendere, cosicché si interroga instancabilmente sui meccanismi scientifici della cucina, per bibbia Harold McGee e Sandor Katz; l’esperienza da grafica, cambiando mezzi e non criteri, la agevola nelle composizioni.
Una cucina fusion ante litteram
Col tempo la contaminazione inizia a configurarsi come un metodo creativo, alla ricerca dei punti di contatto fra diverse tradizioni come farebbe uno strutturalista con le costanti linguistiche. “Perché la maniera in cui un popolo si evolve è simile, ma differente nel concreto a causa degli ingredienti e del modo di alimentarsi. Sussistono comunque punti di contatto attraverso cui passare un filo rosso. Per esempio fra la coda alla vaccinara e il mole, tanto che ho voluto applicare le sue stagionature alla ricetta romana. Se da sempre guerre, paci e amori si fanno a tavola, è per questo esperanto dovuto all’invariabilità del corpo. Un’artista con cui collaboro, Daniela Papadia, ha creato una tovaglia con il genoma umano ricamato da sei detenute, chiamata la ‘tavola dell’alleanza’, su cui far mangiare le persone per intessere un dialogo. L’abbiamo usata sotto i miei piatti a Rebibbia”. E ogni anno l’impegno è quello di frequentare un corso o compiere un breve stage, da Grant Achatz come dai Roca, in modo da aggiornarsi professionalmente.
Il melting pot nel frigorifero segue: “Cerco l’eccellenza ovunque e del 90% degli ingredienti conosco produttori e affini. Sono tutti stagionali, anche se il criterio è quello effettivo e non tradizionale, perché tanti sono disponibili fuori dal periodo consueto. Ovunque mi sposto assaggio e tac, magari compro”. Nel 2012 sopraggiunge Romeo Chef & Baker, evoluzione dei foodtruck di cui Austin è capitale, con un’offerta che corre sul doppio binario di birra e pizza grazie alla collaborazione (archiviata) con i fratelli Roscioli. Per ragioni di spazio da quest’anno ha traslocato in piazza dell’Emporio dentro un maxilocale di 2000 metri quadrati comprensivo di ristorante, pizzeria (intitolata a Giulietta), forno, gastronomia e gelateria, a firma di Andrea Lupacchini come il Glass. Ed è arrivato anche il riconoscimento alla visione manageriale e all’intelligenza del settore con la carica di presidentessa degli Ambasciatori del gusto, contro il cliché dell’alta cucina in pantaloni. “Ma secondo me questo lavoro non ha sesso. Altrimenti dovrebbero esistere anche la cucina omosessuale e quella transgender”.
Togliere, per aggiungere carattere
Come spesso accade agli autodidatti, oggi i piatti della Bowerman sono tecnicamente inappuntabili. Compongono menu articolati come narrazioni di viaggio, romanzi odeporici secondo il gergo letterario, fin dagli appetizer. Talvolta i riferimenti sono classici, vedi la capasanta arrostita e servita con una variazione di due mele, granny smith e golden, in forma sferificata, fermentata, cotta, cruda e liquida, secondo un accostamento familiare; più le uova di trota per la sapidità e il croccante e la chiusura dei germogli piccanti di Harald Gasser, che dal suo maso altoatesino spedisce anche i tuberi. L’utilizzo di frutta al Glass è quasi una costante, garanzia di freschezza e acidità naturale. Oppure il predessert di torcione di foie gras, marinato classicamente e poi stagionato per 3 settimane, in modo da sviluppare al massimo grado l’umami, poi grattato e finito nell’azoto liquido per il contrasto caldo/freddo con l’animella spadellata e glassata alla salsa di soia dolce, più una visciola all’Armagnac di Fabio Stivale per ripulire. Una preparazione complessa, sintesi fra quella classica di Angelo Troiani ed elaborazioni contemporanee (il foie crudo, il foie grattugiato alla Ferran Adrià), per una composizione lineare. “Giacché sono la donna del tre: cerco sempre di levare”.
L’umami è quasi sempre in evidenza nel piatto, quale gusto del preconscio italiano portato alla ribalta dalle contaminazioni. Vedi la bagna cauda classica, ma all’aglio nero fermentato, con gnocchetti di patate chewy, al limite dell’elastico grazie alla cottura in acqua quasi satura di sale, per una masticazione lunghissima, pomodori confit, edamame ovvero fagiolini giapponesi, ricci di mare e tartufo estivo. Oppure il capocollo succulento di maiale iberico cotto a bassa temperatura e finito sul fry top, servito con pistacchi cotti nel dashi, secondo una classica preparazione statunitense, più un punto di kumquat nero fermentato per la nota al tempo stesso dolce e aspra. E perfino il dessert: una carrot cake, torta prediletta dalla chef, con gelato al pepe lungo, cremoso di cioccolato bianco per la dolcezza e un caffè che nell’impasto apporta amaro e note terrose, ancora una volta di umami.
I menu così composti sono 3: il Vegetariano da 6 corse a 85 euro, il Tradizionale… ma non troppo da 7 a 90 e il Glass da 9 a 150. Sposano i vini selezionati da Fabio Spada, socio nel lavoro e compagno nella vita. La sua carta conta un migliaio di etichette spalmate geograficamente e per fasce di prezzo, con il nebbiolo, il pinot nero, Lazio e Toscana, Champagne e Mosella in evidenza, una buona profondità in verticale e tanti biodinamici.