Cucina corsara fra i tesori dell’arte.
Corsaro: “Capitano di bastimento che conduce guerra di corsa”, ovvero “le spedizioni marittime compiute durante un conflitto da navi da guerra non solo statali, ma anche di armatori privati, autorizzate dallo Stato in guerra grazie a speciali lettere di corsa, con lo scopo di assaltare e depredare le navi nemiche, sia da guerra che mercantili, al fine di evitare al nemico ogni tipo di commercio”… Così recita il dizionario Treccani; e così metaforizzava Pier Paolo Pasolini alludendo a una scrittura maleducata e clandestina, punteggiata di incursioni micidiali nei territori nemici per carpirne i tesori. Indomita e insofferente dei confini; inafferrabile nella sua velocità oltre che animata da una selvaggia energia.
È qualcosa in più della bandana d’ordinanza, allora, a fare di Cristiano Tomei il corsaro della cucina italiana: le sue scorribande sono state comunque premiate dalla recente assegnazione della stella Michelin. Lui insospettabilmente acquattato negli spazi augusti di palazzo Boccella; per arma l’Imbuto che dà nome al ristorante, una potenza aspirante capace di risucchiare suggestioni con ben altro air watt dalla forza di gravità. La cucina come guerra di corsa, la cucina come scorribanda fra confini. Il piacere non si arresta alla frontiera né paga dazio ai doganieri: penetra piuttosto fulmineo e preciso laddove meno te lo aspetti, per esempio nelle sale del Lucca Center of Contemporary Art. L’interior design è eloquente. Davanti al desk della biglietteria, da cui si accede alle importanti esposizioni in programma, sfilano camerieri carichi di piatti, diretti alle due salette arredate con tavoli di cartone, in omaggio al polo della carta che ha fatto grande la città, rivestiti di tovagliette in pelle. Tutt’intorno, anche qui, opere a firma di artisti emergenti, cosicché durante gli orari del pranzo l’ospite si trasforma in elemento dell’istallazione. La stessa hall, negli orari serali, subisce l’avanzata corsara punteggiandosi di tavoli; mentre al piano interrato, dove si trovano le fondamenta delle mura medioevali e un tempo aveva sede il lupanare, ricordato dagli affreschi del Ghirlanda, si sparpagliano altri coperti serali. Dopo la chiusura delle mostre alle 19, neppure il piano nobile è al sicuro dalle scorribande in caso di cene ed altri eventi speciali. Cristiano Tomei vi è approdato due anni fa dalla sua Viareggio natale, prima sede dell’Imbuto, dove aveva messo a punto da tempi non sospetti un concetto irriverente di ristorazione. Democratica nei prezzi e negli atteggiamenti, più istintiva che concettuale, infiammata dalla febbre della cucina cucinata che dal fourneau sale su su lungo il termometro delle emozioni. Spesso e volentieri estemporanea, dato che il velocimetro dei piatti in carta era fra i più alti d’Italia: un paio di ricette a settimana con la libertà e l’immaginazione che solo un autodidatta totale può avere. Per quanto un apprendistato Tomei lo avesse avuto, al fianco del padre Valeriano, impresario edile meritevole di averlo svezzato ai grandi vini, di cui è cultore e connaisseur, oltre che alle tavole eccellenti, da Paracucchi ad Arzak.
Una raffica di piatti sempre nuovi
A Lucca la formula non è cambiata, a dare una scorsa al menu: 4, 6, 9 portate a sorpresa al prezzo di 40, 60 e 90 euro, con l’alternativa meridiana del light lunch a soli 20 euro. Prima della scelta il cameriere passa ai tavoli per sincerarsi di eventuali intolleranze o idiosincrasie, poi sta alla stagione e all’umore del cuoco allestire il menu del caso utilizzando ingredienti di prossimità. “Non abbiamo mai schedato i clienti come ha fatto qualcuno, ma mia moglie Laura ha una memoria fotografica, che ci consente di risalire spesso a eventuali visite pregresse, in modo da evitare di ripetere i piatti. L’anzianità è importante anche per capire fin dove ci possiamo spingere: se il cliente è nuovo preferiamo proporgli portate rassicuranti, per poi alzare il tiro, magari, alla visita seguente. Fino alla personalizzazione totale nel caso degli habitué”.
Difficile scegliere una rosa di piatti, in questa guerra di corsa che ogni giorno bombarda qualcosa di nuovo. I biscotti al burro con succo di sparnocchie (le mazzancolle nostrane) e ketchup fatto in casa, con le foglie di acetosella ed elicriso raccolte da Tomei attorno alla casa di Migliano, come l’ombrina di Bocca di Serchio sgrassata dall’Arrangiato di Baldo con guarnizione di cocomero e mirtilli dell’Abetone; la minestra di riso, né tostato né mantecato, cotto in Moscato d’Asti, succo di limone e acqua di cozze con cozze affumicate, polvere di cipolla bruciata e artemisia come la zuppetta di fagioli schiaccioni di Pietrasanta lessati col pane, sul modello della zuppa del Seghetti, più ricci di mare, arista soffiata e un pizzico di liquirizia. E ancora i maccheroncini con salsa di albicocche sotto sale, in chiave anti-fruttosio, per acidulare e legare, scampi, olio infuso alle teste e polvere di verdure tostate al posto del soffritto. Oppure lo sgombretto, che evoca la brace della memoria con la sua pelle bruciacchiata, servito insieme a cetrioli marinati alla sambuca e salsa di barbabietola; i moscardini alla sensazione di griglia marinati al mirin con salsiccia cruda e acqua di peperoni arrosto (foto a pag. 47); il cervello fritto con ostrica arrosto, salsa di sherry e soia.
Talento, materia prima e tecnica
A mettere a nudo il talento di Tomei sono però trouvaille e tour-de-main mai visti altrove. Vedi i ravioli di olio, la cui farcia non è ottenuta testurizzando il grasso ma montandolo col latte a mo’ di maionese, conditi con una brunoise di seppioline scottate e polvere di cavolo nero al posto del sale, più il parmigiano per l’umami. Dove si ribalta in un’iperbole la proporzione fra pietanza e condimento, interno ed esterno, mentre il secondo si traduce in primo piatto. Oppure il sistema di cottura in sospensione, con gli alimenti appesi sopra il fourneau per un tempo cronometrato, come si faceva una volta con le penne grandi davanti al fuoco del camino. È il caso del polpo che scambia umori e umidità con la leccarda di birra lambic alle ciliegie, poi bruciato in padella e servito con pesca e animella fritta, la cui testura risulta integra e perfetta. Oppure del piccione, appeso intero per 3 ore, buttato nell’olio bollente e servito con le sue ossa. A strappare l’applauso è anche la carne cruda servita su brani di corteccia monouso, scovati ogni giorno da Tomei in pineta. Vengono scaldati nel forno ad altissima temperatura, costituendo una sorta di barbecue da tavolo che tiene in caldo e aromatizza con sentori balsamici, resinosi, tostati il manzo stracciato e massaggiato all’olio, cosparso di grasso di manzo fuso per simulare la cottura, ciccioli residui per il contrasto croccante e bucce di patate fritte in nome della povertà e dell’ingrediente intero. Una cottura-non cottura che ricostruisce la sensazione di bistecca grazie al legno ingrediente anziché contenitore, come nel caso della tartara di Alajmo, solo apparentemente affine. La tensione non cala nei dessert, che si tratti del dulce de leche con semi di pomodoro e peperoncino o della scarpaccia, dolce tipico farcito alle zucchine, qui fritto come il bombolone detto “frate”.
In traccia e a caccia di luccicanze disparate, gli stili si accavallano e si smentiscono. Perché “la cucina è una sola”, come ama ripetere lo chef, attivo anche in due mense cittadine. Si riconosce nell’ebbrezza del cambiamento piuttosto che nelle lusinghe high-tech o nelle forzature concettuali; lo stesso format bistronomico vale come un grimaldello a scalzare la seriosità delle formule costituite grazie al suo statuto nomade, naturalmente vocato al divertimento e alla reversibilità stilistica. Ma resta sempre alto il volume dei sapori e dei contrasti, spesso fusi in sensazioni nuove; così come la masticabilità.
La carta dei vini è importante: conta circa 500 referenze con una buona profondità nel tempo e un ampio raggio nello spazio, comprese rarità che recano in etichetta le tracce di Peppino Cantarelli, a istituire un parallelo spiazzante fra due anticonformismi a cavallo del millennio, ugualmente aderenti al territorio.
Ristorante L’Imbuto
Lucca Center of Contemporary Art
Via della Fratta, 36 – Lucca
Tel. 0583 491280
Giorno di chiusura: lunedì