Si fa presto, però, a dire trattoria, visto che la definizione non è univoca. Aprendo il dizionario alla voce trattoria leggiamo “pubblico esercizio, prevalentemente di tipo popolare, tipicamente italiano, destinato alla vendita e consumazione dei pasti in loco.
Il nome deriva da trattore, “oste” dal latino, tractare, “trattare, preparare”. L’economicità dei prezzi praticati è una attrattiva di questi locali a cui fa riscontro una maggiore semplicità nel servizio e negli arredi”.
Ma oggi le cose non stanno più così. Questa definizione non tiene ovviamente conto dell’evoluzione a cui la trattoria è andata incontro negli ultimi anni: se prima era il regno dei piatti della mamma e della nonna, segnati sulla lavagna, oggi appartiene a nuovi cuochi visionari che hanno rimodellato in chiave contemporanea questi luoghi e la loro lunga storia. L’icona della tradizione culinaria cambia pelle, così come si trasforma il concetto di ristorazione a cui è legata. L’Italia abbraccia una cultura gastronomica ampia, che affonda le radici in un passato lontano e povero, fatto di territorio e localismo. Una cultura che si declina in modo diverso in venti regioni che, sommate, riconsegnano un quadro variopinto di prodotti, sapori, ricette.
Portavoce di questa immensa tradizione, rappresentante del territorio e dei suoi prodotti, custode di ciò che c’era ieri e divulgatore dei piatti della memoria, è proprio il popolo degli osti con le loro trattorie.
Luoghi emblematici ed eclettici dove si gioca la partita della promozione del prodotti locali, della conservazione della tradizione e della costruzione di un futuro credibile per la cucina, fatto di nuove tecnologie e tecniche, di sostenibilità e chilometro zero (quello vero), di dialogo con i fornitori e di identità territoriale.
Le trattorie nel nostro immaginario condiviso altro non sono che luoghi della memoria casalinga, della cucina “come a casa”, dello stile informale e della convivialità più genuina. E sono anche luoghi del ricordo di ciò che si era e che continuiamo a cercare come rifugio collettivo e intimo insieme.
Allo stesso tempo sono luoghi che guardano oltre, potremmo definirli anche luoghi di commistione, dove passato e futuro si impastano letteralmente insieme per creare il moderno, l’attuale.
Futuro che troviamo, appunto, nell’utilizzo della nuova tecnologia, con le sue attrezzature (abbattitori, roner, sifoni, ecc.), ma anche in una più consapevole conoscenza delle materie prime, della loro provenienza, della filiera, della stagionalità.
E gli osti? Anche loro sono cambiati, oggi rivestono un ruolo più impegnativo che in passato: portano avanti le storie di famiglia e sperimentano il nuovo allo stesso tempo, cercano i prodotti giusti, diventano interlocutori e spesso amici dei piccoli artigiani e produttori.
Un ruolo sociale non da poco, che fa da collante tra le parti, un anello di congiunzione che riesce a mettere in contatto i vari attori, con la funzione di cantastorie o, come si direbbe oggigiorno, di storyteller.
Grazie a questa sua evoluzione la trattoria nel nuovo millennio è tornata ad essere riferimento per la ristorazione italiana. Eppure non si può generalizzare, considerando che, in breve tempo, le trattorie si sono moltiplicate e diversificate tra loro.
Si va dall’osteria moderna a quella tradizionale, passando anche per gli agriturismi con cucina casalinga, fino ai ristoranti della tradizione: in comune tutte queste forme di ospitalità hanno quella certa tendenza ad accogliere il cliente in modo informale e complice, per farlo stare bene offrendogli con semplicità uno spaccato del territorio senza inseguire le mode, ma magari creandole.
Torniamo a Roma
Roma da sempre è il regno del cibo popolare, quello della Sora Lella per intenderci: cucina verace, sostanziosa, abbondante nei condimenti.
Tutti i turisti sono alla ricerca di un posto tipico, magari quello dove si mangia la migliore carbonara o cacio e pepe; qualsiasi romano ha la propria trattoria di riferimento, e poi ci sono quelli che vogliono sperimentare, provare cose per loro insolite, o, perché no, coccolarsi ogni tanto con un bel primo opulento piatto a della tradizione.
Da nord a sud della città, senza tralasciare gli altri quadranti, ogni quartiere a Roma ha le sue trattorie tipiche, familiari, classiche, quelle che non cambiano e non vogliono cambiare, ma troviamo anche le trattorie nuove, belle da vivere, a tratti, esperienziali. Anche nella capitale da diversi anni si sente parlare di”trattoria moderna”.
Ma cos’è in realtà la cosiddetta trattoria moderna?
Si potrebbe pensare che il nome derivi da una questione di design e di arredamento minimal, che strizza l’occhio volutamente al vintage.
No, ciò che caratterizza la trattoria moderna è la decisione di scommettere su una cucina che guarda al territorio e alle sue materie prime e le usa per rifarsi alla tradizione o per ripensarla in modo inedito.
Una cucina che ha uno stretto legame anche con il vino, spesso biologico, naturale o ricercato.
E ve ne accorgerete dal racconto che tanti osti ci hanno fatto, ognuno dando una definizione diversa di trattoria moderna, ognuno regalandoci una visione personale del loro rapporto con la tradizione.
In questo numero abbiamo deciso, infatti, di raccontarvi alcune delle trattorie contemporanee romane in un ipotetico percorso: in qualsiasi angolo di Roma voi vi troviate, noi abbiamo individuato il posto dove farvi accomodare e anche il piatto iconico che dovreste assaggiare.
L’Osteria di Monteverde
Raggiungiamo il quartiere Monteverde e puntiamo dritti verso L’Osteria di Monteverde. Già il nome ci dice quanto valore si dia al concetto di identità territoriale.
“Noi ci definiamo un’osteria contemporanea;” dice Roberto Campitelli, che continua: “la nostra modernità passa per una declinazione attuale della tradizione, un modo per renderla più aderente al presente mediante l’utilizzo di nuove tecniche, scelta adeguata della materia prima e conoscenze sempre maggiori. Nessuno stravolgimento, ma una rivisitazione sensata cercando un modo per essere differenti, ma senza perdere la nostra peculiarità”.
Entrando da Osteria di Monteverde si viene accolti da un’atmosfera calda e piacevole, dove rilassarsi scegliendo in un menù non molto grande e che ha la capacità di cambiare anche giornalmente. Il suo punto di forza è proprio questo: offrire una cucina quotidiana (nel senso più ampio del termine) anche nel prezzo.
Dai fritti ai primi della tradizione romana, la scelta non manca ed è continua, a questi si aggiungono poi percorsi dello chef e piatti iconici della capitale, ma in una versione con libera interpretazione come il baccalà in panzanella, la lingua tostata con patate e acciughe, il tataki di cefalo, il tortellone alla picchiapò o il raviolo di broccolo e arzilla.
“Da quando abbiamo aperto, nel 2010, la nostra riconoscibilità è proprio il menù di poche portate che prende forma in base a ciò che ci offre il mercato rionale, dove vado a fare la spesa tutte le mattine.
Il nostro concept rimane sempre legato all’offerta di piatti riconoscibili e comprensibili. Ma ovviamente in cucina mi piace sperimentare, variare e quindi cerco di proporre sempre qualcosa di nuovo. Da qualche anno punto molto sulla materia prima, specie quella povera e di territorio, per mantenere prezzi adeguati e un’aderenza maggiore alla tradizione.
Quinto quarto e pesce povero del litorale laziale sono i nostri plus, così come la carta dei vini che cambia spesso e che sposa il territorio laziale e i piccoli artigiani”.
Trattoria Pennestri
Spostiamoci ancora e raggiungiamo il quartiere Ostiense, a due passi dalla Piramide Cestia, dal “Monte dei cocci”, dal gazometro e da alcuni dei più interessanti lavori della street-art romana contemporanea.
Qui troviamo la pluripremiata Trattoria Pennestri, segnalata in tutte le guide e fin da subito incarnazione perfetta della versione di “una trattoria odierna, perché molto legata alla realtà che è in continua evoluzione (come i nostri piatti e la nostra carta dei vini), ma anche al territorio e al nostro vicinato che ci ha accolto e di cui ci sentiamo parte”, sostengono i titolari.
In cucina c’è lo chef Tommaso Pennestri, in sala c’è l’ostessa Valeria Payero, che consiglia in maniera impeccabile cosa bere: entrambi hanno puntato sulla qualità della materia prima, costruendo relazioni di fiducia con i fornitori.
L’accoglienza offre la sensazione di sentirsi a casa in un ambiente discreto, grazie a un’innovazione senza stravolgimenti proprio perché si parla di una trattoria e perché allo stesso tempo si rompono degli schemi.
Il binomio tradizione e modernità qui diventa quasi fluido, come ci spiegano Tommaso e Valeria: “Non è tanto scontato parlare di tradizione o di modernità, ogni giorno in Trattoria Pennestri lavoriamo ponendoci in una costante intermediazione tra ciò che si ritiene ormai consolidato, e quindi tradizionale, e ciò che è innovativo, provando e sperimentando cotture e risultanti di sapore”.
Grande valore aggiunto, la carta dei vini che predilige il territorio e i vini naturali, “in una ricerca oculata e a volte quasi ossessiva di piccole aziende in tutta la Penisola”, come sottolinea Valeria. Il racconto dei piatti al tavolo rende poi l’esperienza del cliente più ricca e consapevole.
Nel menù, i primi della tradizione romana sono intoccabili e restano fedeli alla tradizione, (si dice che i loro rigatoni all’amatriciana sono i migliori della capitale), per il resto tutti i piatti in termini di ingredienti e cotture sono soggetti a interpretazioni e varianti.
Tante le materie prime del territorio, comprese quelle che hanno fatto la storia di Roma, quinto quarto su tutte per piatti come rigatoni con pajata e colatura o le animelle al vino bianco.
Regna anche sovrano il baccalà con uno dei loro antipasti must, crocchette di baccalà e patate, ma anche il baccalà mantecato con schiaccia di patate e, tra i primi, uno dei punti fermi sono anche gli gnocchetti acqua e farina, crema di scampi e stracciatella.
SantoPalato
Arriviamo a San Giovanni, un altro quartiere storico e di grande fascino di Roma, per andare a sederci da SantoPalato, uno degli esempi di successo della “nuova trattoria italiana”, con un ritorno al passato e la riproposizione di una cucina della familiarità e della tradizione.
In cucina troviamo Sarah Cicolini, una cuoca modernissima al comando e giovane imprenditrice dalle idee molto chiare da quando, nel 2017, ha messo su questo progetto.
Fin dall’inizio sono stati definiti senza troppi giri di parole “Trattoria Moderna” e, come lei stessa conferma: “Siamo una trattoria moderna al 100% e ritengo che questo sia sufficiente per dare un’idea a chi si approccia alla nostra filosofia. Modernizzare e/o interpretare sono le cose che facciamo più di frequente.
Sono azioni che vanno di pari passo con la conoscenza della tradizione tout court. È il nostro credo.
Oggigiorno, nell’era del bombardamento mediatico, la cosa più importante è restituire la verità e l’autenticità, nel bere e nel mangiare. Questo è il nostro obiettivo e credo che sia anche una sorta di ‘manifesto’ di SantoPalato”.
La cucina di Sarah parte dal “basso”, pochi ingredienti e riconoscibili, grande materia prima, tanto studio delle tradizioni regionali, applicazione delle tecniche e anche un grande storytelling di ciò che fa.
E questi elementi, qui elencati, sono i capisaldi della sua espressione, dell’essenza di SantoPalato che dal primo giorno ad oggi non ha mai tradito l’identità, la credibilità e la riconoscibilità.
SantoPalato è celebre, inoltre, per l’utilizzo del quinto quarto, “croce e delizia di noi neo-osti” asserisce la nostra chef che lo usa in ogni forma e piatto. Fegato, fegatini, lingua, cuore, diaframma, c’è tutto, e sempre proposto in modo diverso, creativo, curioso.
Si parte dall’omaggio alla nonna, con la sua frittata con le rigaglie, la trippa alla romana, il prosciutto di cuore per poi provare la carbonara, che scala le classifiche capitoline, e il maritozzo di grano arso con la crema Chantilly, che diventa un obbligo a fine pasto.
Eufrosino Osteria
Viaggiamo verso la periferia, che poi tanto periferia non è più. Siamo a Torpignattara e la nostra trattoria di elezione è Eufrosino, che prende il nome dal santo patrono dei cuochi. Entrando troviamo l’atmosfera e lo spirito delle trattorie, un po’ come quelle emiliane, tanti quadri alle pareti, tanto legno, lampade da biliardo che illuminano la sala.
In cucina Paolo d’Ercole, un cuoco ultramoderno, che ha fatto della tradizione la sua missione. “La tradizione in trattoria per me è fondamentale, è la mia missione – queste le sue parole – Sono un ortodosso, rispetto fedelmente le ricette tipiche di ogni regione o paese, quelle delle nonne, ricette che vado a ricercare, che studio e che spesso mi regalano nei miei viaggi, o che mi forniscono al ristorante gli stessi clienti con cui mi fermo a chiacchierare”.
Da Eufrosino la romanità è bandita per scelta, mentre si dà voce alla cucina di ogni parte d’Italia, disegnando dall’antipasto al dolce dei veri e propri viaggi del gusto. Mangiare in questa trattoria è come salire su una giostra, è un gioco per il palato, puro divertimento e scoperta.
Qui i menù cambiano mensilmente, in base alle stagioni e alle scoperte del nostro oste: “Non c’è una regione che mi colpisce in modo particolare più di un’altra, dipende dalla stagionalità dei prodotti; le ricette che propongo sono come una folgorazione: le incontro, mi ispirano, mi piacciono e le realizzo”.
Del Lazio ha conservato pochi piatti per lo più sconosciuti, come per esempio i grattaculi (le foglie della zucca e delle zucchine) con l’uovo strapazzato e il petto di vitello alla fornara.
Poi ci sono i piatti intoccabili, che stagionalmente rimangono fissi, come i mondelighi con salsa tartara, la chitarrina cacio, ova e pecora, le pappardelle con castagne, lardo e grappa. Lo stesso succede con i vini: è il sommelier Paolo Abballe che gioca con le etichette, le ricerca in ogni regione tentando di trovare cose nuove, ma senza seguire mai le mode.
Qui si fa tutto come una volta. Insomma tradizione senza compromessi, applicata quasi in modo scientifico. E forse la modernità di Eufrosino sta proprio in questo approccio, che ridà indietro concretezza, sapore, pochi fronzoli e un rapporto diretto con il commensale, che qui vive la tavola con curiosità.
“Potrebbe essere un eufemismo, – dice ridendo Paolo – da Eufrosino siamo così antichi che ci sentiamo moderni. Il punto cardine della nostra realtà è lo studio e la ricerca, quello classico (non sperimentale). Partendo da questo e dalla voglia di raccontare attraverso la cucina le storie familiari si può cominciare a parlare di modernità.
Un esempio? Posso dire che sono stato il primo a portare la carne d’asino a Torpignattara, nel primissimo menù, una vera sfida, ed è stato uno dei piatti più richiesti. La trovo una cosa molto attuale”.
Menabò
Ultima tappa Centocelle, dove si respira un continuo fermento gastronomico. Tra i tanti posti che il quartiere offre, la nostra sosta obbligatoria è Menabò con la sua cucina da “trattoria Resistente”, come dicono i fratelli Camponeschi, con Daniele in sala e Paolo in cucina.
Menabò appartiene senza dubbio a quel movimento della trattoria moderna contemporanea che cresce da vent’anni, un movimento che non impone codici o schemi, oppure definizione fisse, ma una variazione continua sul tema della tradizione per farla vivere sempre come cucina contemporanea.
Da Menabò si trova una cucina mediterranea, dove il Mediterraneo non è solo un riferimento geografico, non è solo una serie di prodotti rappresentativi da mettere in un piatto, ma diventa un’idea e una forma di narrazione storico-sociale. Il Mediterraneo che i Camponeschi hanno deciso di tradurre nei loro piatti è un sistema di relazioni, di rotte, di incontri e di scambi, di fusioni di popoli. Si potrebbe parlare di contaminazione, ma è anche corretto parlare di integrazione, di inclusione.
“Il Mediterraneo è un qualcosa che abbraccia, che avvolge e mette in comunicazione: lo ha sempre fatto e continua a farlo. E con la nostra cucina cerchiamo di indagare la complessità di questo sistema e delle sue radici.
Non prendiamo spunto dalla tradizione ma dalle tradizioni che si trovano a convivere nello stesso luogo.
La stessa Centocelle è fusione di diverse etnie e nazionalità, integrate da tempo, che prendono e danno alla nostra cucina. – ci spiega Paolo Camponeschi che continua: “In un piatto del nostro menù che si dice mediterraneo si trovano le materie prime classiche di Roma e d’Italia, ma si trovano anche i Balcani, la Spagna, o il Nord Africa che usano gli stessi ingredienti ma in altre forme.
A me piace mescolare il tutto per dare vita a qualcosa dove la tradizione è un punto di partenza: la nostra cucina mediterranea in poche parole è un atteggiamento mentale, una visione personale”.
Partiti dai fegatini di maiale nella rete che rimane un must del loro menù, i piatti che cambiano abbastanza di frequente sono oggi libera espressione, narrazione di questo concetto di “spazio mediterraneo” che va dalla gricia di stagione alla pasta mista, ceci, cozze e rosmarino fino alla pita fatta in casa, spiedo di pollo, misticanza, maionese allo yogurt o al Börek del pastore passando anche per le interpretazioni dolci del Mediterraneo come la brioche sfogliata, agrumi, noci, cannella e coulis di uva fragola.
Menabò conserva dal primo giorno l’idea della trattoria, di un luogo dove vivere con informalità e convivialità il cibo, un posto dove condividere parole, risate e sapori. Un luogo dove consumare un pasto solido e sincero lontano dalla sperimentazione. Ed è quello che succede qui a via delle Palme: l’accoglienza e il servizio sono il fiore all’occhiello, qualcosa a cui il quartiere non era abitua.
Daniele ti racconta, ti aiuta a scegliere, ti fa sentire a tuo agio e poi ti lascia libero di goderti la serata. Il vino qui è al pari della cucina: contro chi dice che in trattoria non si può bere bene, Menabò punta sui vini alternativi, quelli artigianali, prodotti dall’inizio alla fine in modo diretto e attento.
[Questo articolo è tratto dal numero di gennaio-febbraio 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]