C’era una volta un re spodestato, lontan dal suo regno fu esiliato, in un palazzo dorato fu confinato a viver da nobile senza ducato. Il re si sentì così disperato che chiese un dolce per esser consolato. Lo chef di palazzo, suo amico fidato, un dolce un po’ secco
gli portò trafelato. Ma son senza denti! – gridò il re stufato – inzuppalo un po’ che lo mangio ammollato. Di spezie e liquori il dolce fu bagnato e fu così che nacque il Babà prelibato.
No, non è una favola per bambini, ma sono i fatti storici (e un po’ di leggenda) che hanno portato alla nascita di uno dei dolci più popolari e goduriosi della pasticceria napoletana: il Babà.
Se nell’immaginario collettivo il Babà è legato anima e cuore alla città di Napoli e ai napoletani viene attribuita in tutto il mondo la sua creazione, non è all’ombra del Vesuvio né per mano di un napoletano che questo dolce ha avuto i suoi natali.
Le sue origini, raccontate da Flavia Amabile nel suo libro “Si nu’ babbà”, sembrano siano attribuibili al re polacco Stanislao Lezsczinski, due volte detronizzato e mandato in esilio nel nord della Francia, precisamente nella cittadina di Luneville. Avendo parentele importanti (Stanislao era il suocero di Luigi XV di Francia, avendo questi sposato sua figlia Maria) ebbe come buona uscita il Ducato di Lorena (un ducato privato che non aveva peso politico).
Durante il suo esilio Re Stanislao si circondò di cuochi ed essendo molto goloso e appassionato di gastronomia, sperimentò egli stesso alcune ricette, tra cui quella del Babà, l’unica cosa della sua vita che lo avrebbe reso celebre.
Si narra che un giorno il re fosse particolarmente giù di morale e che chiedesse di poter mangiare un dolce per rallegrare i suoi umori.
I cuochi di palazzo gli portarono una fetta di kugelhopf, un dolce tradizionale austriaco molto in voga in Europa a quei tempi.
Il dolce, caratterizzato da un impasto poco “condito” di grasso, diventava piuttosto secco dopo pochissimi giorni. Il re, che aveva difficoltà di masticazione perché gli mancavano molti denti, andò su tutte le furie e chiese del vino per poter ammorbidire quel dolce e riuscire a mangiarlo.
Il vino che gli fu portato era il Madeira, e quell’aroma liquoroso, unito al sapore del dolce, ispirò particolarmente Stanislao, al punto che egli stesso si mise a sperimentare ricette e impasti per migliorarlo: la forma diventò a semicupola (per ricordare la cupola di Santa Sofia di Costantinopoli), le lievitazioni diventarono 3 e furono aggiunti uva passa, canditi e persino lo zafferano, che il re aveva conosciuto durante la sua prigionia ad Istanbul e la permanenza in Bessarabia, allora parte dell’Impero Ottomano.
Il dolce così creato fu chiamato da Stanislao Alì Babà, dedicandolo al protagonista de “Le mille e una notte”, tra le storie preferite da Stanislao che era anche un assiduo lettore, amante dell’arte e della cultura.
Questo incrocio di culture e di suggestioni portò Fabrizio Mangoni, autore de “La Fisiognomica del Cibo” e principale storico della pasticceria napoletana, a definire il Babà come “Dolce dei lumi”.
Ma siamo ancora molto lontani dal Babà napoletano e si dovrà passare per altre teste coronate e altri palazzi reali, prima di approdare alle falde del Vesuvio.
È l’inizio del Settecento quando la figlia di Stanislao, Maria Leszczynska, moglie del re di Francia Luigi XV, fa arrivare a Versailles il pasticcere polacco di suo padre, un certo Nicolas Stohrer (tra i più grandi pasticceri di tutti i tempi, inventore di alcuni dei dolci più celebri della pasticceria europea), a cui concederà la licenza per aprire la prima pasticceria privata in una città europea, al numero 52 di Rue Montorgue, dove Stohrer attuò i cambiamenti decisivi di quello che diventerà poi il moderno Babà e dove ancora oggi, allo stesso indirizzo, si possono gustare i suoi dolci.
In quegli anni alla corte francese impazzava la moda del rhum giamaicano e così Storher sostituì il Madeira col rhum, eliminò lo zafferano dall’impasto e cambiò la forma da cupola a fungo o cappello di cuoco, così come è conosciuta oggi e che caratterizza il tipico Babà napoletano.
Le modifiche ebbero un gran successo in una città alla moda e all’avanguardia come Parigi, ma pare che Stanislao non ne fu particolarmente entusiasta.
Qualche anno dopo, infatti, ne parlerà addirittura in una lettera indirizzata a Voltaire:
“Ho diviso i giorni in ore e le ho riempite di emozioni, di cose degne di memoria, di cose fatte, ma anche di cose solo immaginate. Questo lasciamo di noi; anche l’Ali Babà. Non è cosa degna di un Re? Lasciamo questi pensieri ai cortigiani e agli intolleranti; a chi pensa di dedicare la vita alla carriera, a chi se l’accorcia al servizio di cose che credono di dominare e di cui sono solo le dileggiate e luccicanti vittime.
A me invece ricorderà la luna turca della notte di Costantinopoli, mi porterà il sapore dell’amicizia col Re di Svezia, e i canditi riproporranno l’eleganza e la preziosità dei vostri ragionamenti […] Lo scorso mese mi hanno presentato un Babà, così lo chiamano ora, talmente inzuppato di liquore che gli ho dato fuoco. Perde di leggerezza e di memoria”.
Arriviamo agli inizi dell’Ottocento e il Babà cambia ancora. Stavolta per mano di Anthelme Brillant-Savarin, uno dei più grandi gastronomi e autore della “Fisiologia del Gusto”, una vera e propria Bibbia della gastronomia di tutti i tempi.
La versione di Brillant-Savarin elimina dall’impasto l’uvetta e aggiunge il burro che ne conferisce aromaticità e morbidezza, lo spennella con una gelatina di albicocche per preservarne l’umidità e soprattutto gli dà la forma di grande ciambella per poterlo farcire al centro con crema chantilly e frutta.
Questa nuova versione a forma di ciambella/torta, tuttora molto frequente sia nelle pasticcerie francesi che napoletane, prenderà il nome di Babà Savarin, o semplicemente Savarin (in onore del suo ideatore) e che si differenzierà dal classico Babà monoporzione a forma di fungo, che resterà semplice senza farcitura (almeno fino ai giorni nostri).
Ma, quindi, il Babà quando ci arriva a Napoli e come diventa il dolce icona della sua cultura gastronomica?
Di mezzo ci sono sempre dei reali, ma in questo caso delle Regine. Il successore di Luigi XV era Luigi XVI, lo sfortunato re ghigliottinato durante la Rivoluzione francese, sposato con la famosa Regina Maria Antonietta, icona di moda e di stile, presa ad esempio da tutte le nobildonne e teste coronate d’Europa.
Maria Antonietta aveva una sorella, Maria Carolina d’Austria, che aveva sposato il Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone. Tra le due regine sorelle maturò una sorta di rivalità, in realtà più sentita da Maria Carolina che da Maria Antonietta, coltivata nel tempo con la spedizione continua di emissari napoletani alla corte di Francia per scoprire le ultime tendenze in fatto di moda e gastronomia.
È di questo periodo, infatti, la tradizione dei monsù, i cuochi francesi che prestavano servizio nelle case aristocratiche dei nobili napoletani e che diedero il via a quel favoloso meticciato gastronomico fra la tradizione napoletana e la cucina francese, che si può riconoscere nella nascita di alcuni tra i più famosi piatti della cucina napoletana, come il gattò di patate (dal gateau francese), la pasta al gratin con l’uso della besciamella, gli sciù (dolci tipici di pasta choux di forma allungata simili agli eclair francesi), per finire col re della pasticceria napoletana, il Babà.
È a Napoli che il Babà consacra la sua forma a fungo, la bagna al rhum decisamente alcolica viene miscelata sapientemente dai cuochi napoletani con uno sciroppo aromatico di acqua, zucchero e scorze di agrumi, la gelatina di albicocche lascia il posto ad una gelatina neutra e diventa il precursore del concetto di street food, dato che verrà degustato dai nobili passeggiando per le vie della città.
Se il Babà moderno nasce a Parigi, dunque, è a Napoli che rinasce e che segna in maniera decisiva la storia di un dolce che deve la sua popolarità proprio alla tradizione partenopea, che ne fa talmente un figlio della sua cultura, da cambiarne persino il nome da Babà in Babbà, con due b, ma pronunciate morbide e con la inimitabile musicalità del dialetto napoletano, ad indicare la rotondità e l’armoniosità raggiunta nella sua versione definitiva e ufficiale.
Versione attestata già nel 1836 nel primo manuale di cucina italiana scritto da Vincenzo Agnoletti per Maria Luigia di Parma, in cui il babbà appare come “dolce tipico napoletano”.
A Napoli, poi, il Babà ha visto infinite versioni, dalla bagna al limoncello, al liquore strega, all’impasto al cioccolato, al caffè, con crema pasticcera e amarene, con panna e frutta fresca, con chantilly e fragoline di bosco, in versione torta, versione mignon, a forma di Vesuvio (Scaturchio docet), versione da passeggio con la sua vaschettina che funge da bicchiere dal quale bere il rhum avanzato.
Insomma, possiamo affermare senza indugi che un dolce nato da un Re è diventato il Re della pasticceria napoletana prima, e italiana poi.
Chissà se la versione napoletana del Babà sarebbe piaciuta al caro Stanislao… a me piace pensare che le note agrumate aggiunte dai napoletani avrebbero fatto breccia nel suo cuore ammaliato dai profumi e dai ricordi dell’esperienza turca.
[Questo articolo è un estratto del numero di gennaio-febbraio 2023 de La Madia Travelfood. Leggilo online oppure abbonati alla rivista cartacea!]