Sensibile, riservato, riflessivo, e per ciò stesso imprevedibile nella sottigliezza delle intuizioni e nei guizzi di un’ironia ovattata. Quasi un piccolo principe della cucina spagnola, capace a mani nude di suscitare meraviglie attraverso la delicatezza delle micromanipolazioni. Dopo un decennio trascorso al timone del ristorante del museo Guggenheim di Bilbao, che continua a pilotare su rotte segnatamente pop, il trentaduenne Josean Alija, già allievo di Ferran Adrià e Martin Berasategui, ha fatto irruzione nel club dei grandi staccando la sua prima stella nel firmamento Michelin in questo mese di novembre. Un riconoscimento obbligato per chi, stagione dopo stagione, ha continuato a propalare un verbo avanguardista coraggiosamente estraneo alla vulgata neobarocca. Minimalista, naturalista, incentrato sul prodotto quotidiano e sulla ricerca gustativa, ma capace di dialogare con l’altro da sé, i topos e i generi della contemporaneità, fino a farsi egemone in questo scorcio di terzo millennio per bocca di toques ancora più verdi. In questa Spagna distante generazioni luce dalla gerontocrazia del Belpaese, il futuro si cucina a vista per parecchi decenni a venire.
Il nuovo locale, intitolato all’antico nome del fiume che scorre davanti all’ingresso, inscena il panta rei della cucina, che neppure un vetro separa dalle deambulazioni del pubblico, salvaguardato da contaminazioni uditive e olfattive grazie alle applicazioni tecnologiche. Sono una trentina di coperti in un ambiente total white con inserti in legno che rievocano la selva, senza distrarre il commensale dalla degustazione. L’onda sinuosa di Frank Gehry, ispirata alla flessuosità dei pesci con le sue argentee placche di titanio, inarca anche le superfici luminose sul soffitto trasportando la scenografia sotto i fondali del fiume. La giusta metafora di un movimento che disseta la città attraverso un lungo viaggio attraverso la natura.
Il tuo itinerario si configura come un tragitto opposto rispetto alla bistronomia tanto di moda oggigiorno. Pur in tempi di crisi economica, sembri avere virato in direzione di numeri diversi, meno coperti e più addetti. Il tuo nuovo locale ha i lineamenti classici dell’alta cucina?
Nerua ha le caratteristiche necessarie per la messa in scena della mia personale interpretazione dell’esperienza gastronomica. Si tratta di uno spazio che racchiude l’essenza di quello che sono, integrato in un ambiente urbano e cosmopolita: una sfida ai nuovi tempi, in un contesto armonico.
Aspettavo da anni questa opportunità, e finalmente nel 2011 l’idea che avevo in testa si è materializzata. La mia squadra è addestrata per rispondere ad ogni tipo di evenienza, in una cornice di lusso sostenibile, senza concessioni alle stravaganze.
Se parliamo di alta cucina poi non ci riferiamo solo ad un modo di cucinare, ma all’attitudine a rimettere costantemente in discussione ciò che si fa, perché lo si fa e come lo si fa. Porsi delle domande aiuta la gastronomia a evolversi e arricchirsi.
L’intervista
E anche l’ambiente forma parte del discorso. Avere più o meno tavoli è una questione meramente prossemica, perché è il personale che dà valore all’insieme.
Cosa ti ha insegnato l’esperienza compiuta in una ristorazione diversa?
Mi considero un osservatore e questo mi aiuta a capire quello che la gente cerca e quello che io posso offrirle come Josean Alija. Lavorando al Guggenheim, all’interno di compatibilità definite, ho appreso l’inquietudine di eliminare il superficiale e cercare il vegetale come obiettivo, senza mai smettere di esplorare altre vie. Sento il dovere di scoprire nuovi prodotti. L’intuizione, la sensibilità e la disciplina sono alcuni degli strumenti che utilizzo.
Quindi la bistronomia, o comunque la tendenza verso una ristorazione improntata all’informalità, è reversibile?
No, credo che in un certo senso la bistronomia sia sempre esistita e che continuerà ad esistere, sebbene ora si trovi in auge. Credo che sia un tipo di ristorazione dotato di una personalità propria e di una peculiare fascia di mercato. Nel mondo della moda succede qualcosa di simile: haute couture e prêt-à-porter convivono in maniera naturale e duratura nel tempo.
Gli storici collegheranno la cavalcata trionfale della cucina spagnola agli anni del boom economico, con il suo ottimismo trascinante. Credi che la crisi attuale stia cambiando il vostro modo di cucinare, oltre a ridurre e trasformare il mercato?
Credo che il successo della cucina spagnola non sia dipeso dal boom economico, ma dal suo alto livello di creatività e innovazione. La cucina spagnola negli ultimi anni si è evoluta fino a convertirsi in avanguardia, ha superato molti ostacoli per diventare quella che è oggi. Lo stile è principalmente una questione di talento. In questo senso credo che non dobbiamo avere paura, ma nutrire fiducia in un’onda lunga che continua grazie principalmente a fattori umani. Ci sono tanti ragazzi anche più giovani di me a dimostrarlo.
La tua cucina si è sempre connotata come la cucina di un solista nel panorama spagnolo. Come vivi questa fase post Adrià? Ferran era il punto di riferimento anche per chi lo osteggiava o comunque se ne distingueva nettamente. Esiste per voi spagnoli una sorta di lutto da elaborare?
Ferran Adria’ è stato un punto di riferimento nel mondo, non solo per gli spagnoli. Io ho avuto la fortuna di lavorare con lui e questo per me è stato un grande onore.
Poi ho creato un mio stile essenzialista che mi differenzia da lui come da tutti gli altri, ma in Spagna ci sono molti chef con una propria maniera. Di quanti paesi si può dire la stessa cosa? Ferran ha molto a che vedere con questo, penso sia stato una figura importante e positiva che ha agito come un catalizzatore, favorendo la moltiplicazione dei talenti e delle tendenze. Adesso dobbiamo affrontare una nuova fase, in un certo senso siamo tutti più adulti. E questo è stimolante.
Cosa resterà (e cosa non resterà) degli esaltanti anni 0 che abbiamo alle spalle?
È chiaro che c’è stata un’evoluzione incalzante e un grande raffinamento. Si sono inventate tecniche, scoperte testure, migliorate cotture. L’importante oggi è restare fedeli all’ambiente che ci circonda, perché in fondo a tutti noi piacciono le cose semplici, ma prima forse non era così chiaro entro quali binari fosse necessario tenersi. Soprattutto credo che resterà la capacità e la volontà di condividere la conoscenza. Questa è la vera eredità che continuerà a transitare fra le diverse generazioni dei cuochi: l’apertura.
La tua cucina ha sempre posto l’accento su componenti a lei estranee, oscene nel senso letterale di quanto avviene lontano dal luogo della rappresentazione. Penso all’attenzione per l’ambiente dell’eco-cucina, o alle componenti salutistiche e nutrizionali. Oggi si parla molto di politica e di responsabilità del cuoco. Come lavori su questi aspetti?
Parto dalla ricerca di prodotti locali; per questo definisco la mia cucina radicale, nel senso che procede dalle radici. Mi sono reso conto che il mio valore sta nel selezionare prodotti interessanti per poi cercarli nelle vicinanze. Questo mi ha portato a creare una rete di fornitori con cui godo di un’ottima empatia e mette a mia disposizione prodotti esclusivi, naturali e vicini. Quindi sono riuscito ad avvicinare la natura alla città. A fare comunità anche a Bilbao.
Non temi che tutto questo possa configurare una perdita di sovranità della cucina in favore di altre sfere, estranee alla dimensione estetica del gusto?
La cucina è una forma di espressione influenzata dall’ambiente che la circonda e dalla cultura in cui vive, ma non deve mai cessare di emozionare e sorprendere attraverso piatti belli, testure nuove, profumi che risvegliano la memoria e sapori tradizionali o riconoscibili. Questi valori sono irrinunciabili e rappresenteranno sempre il fondamento di ogni giudizio.
In un certo senso l’ecologia e l’impegno rappresentano nuove frontiere per l’innovazione. Al fine di progredire la cucina ha sempre avuto bisogno di serbatoi che via via ha prosciugato, dalle tecniche dell’industria alimentare al design, alle cucine straniere, come quella giapponese. Quest’anno a San Sebastian è stata la volta dell’America Latina. Ti ha suggestionato?
Il Brasile, il Messico e il Perù rappresentano cucine emergenti, ricche di prodotti unici: mille varietà di patate, frutta sconosciuta, una biodiversità molto interessante. Cuochi come Gaston Acurio e Alex Atala stanno dando molto alla gastronomia, tanto nei loro paesi che all’estero. Con la loro inquietudine, attraverso la creatività e l’innovazione, partendo sempre dalle loro tradizioni. Per quanto lavori su prodotti locali, e li metta sempre al centro del piatto, il contesto che li circonda può avere una gittata diversa. Arrivare anche da oltreoceano, perché no.
La cucina sostenibile e naturale comporta necessariamente un ridimensionamento della tecnologia? Immagino che gli ecologisti potrebbero dibattere a lungo.
Sono aspetti completamente compatibili, nel mio caso gli strumenti di cucina sono altamente tecnologici. A Nerua siamo partiti da zero, questo mi ha permesso di dotarmi delle ultime tecnologie, pensando all’uso responsabile dell’energia, in un progetto disegnato completamente su misura. Ho la fortuna di avere una cucina perfettamente equipaggiata, precisa e confortevole.
Tutto questo non ostacola la mia inquietudine per la ricerca sui vegetali e sui prodotti naturali, al contrario mi aiuta ad estrarne l’essenza e a plasmarla nelle mie creazioni. Credo che il concetto di tecnonaturale sia perfettamente fattibile ed efficiente. Mi riconosco pienamente in esso.
In generale la tecnica e la cerebralità sembrano avere ceduto il passo all’emozione e soprattutto alla materia, studiata dall’interno. Insomma alla natura, nella sua dimensione interna ed esterna all’uomo. Fra il mythos e il logos, ha vinto la physis. Tanto nella tua cucina che in quella, molto più sgarbata, che si pratica nel nord Europa.
Tendenzialmente è vero, ma semplificare non giova. Tutti noi pensiamo che “semplice è buono”, perché la semplicità trasmette emozioni molto chiare. E perché cuciniamo? Per emozionare. Io punto tutto sull’emozione e sulla sorpresa in cucina. Ma per arrivare a questo sono necessari tecnica e studio, i quali permettono di ripetere processi uguali e perfetti. La tecnica è uno strumento indispensabile per plasmare le emozioni, al pari della riflessione, quindi stento a mettere un elemento contro l’altro.
Sotto il profilo gustativo, la cangianza e la rarefazione dei tuoi piatti vanno di pari passo con presentazioni semplici e forme riconoscibili, che si contrappongono alle concentrazioni gustative eccessive, alla pirotecniche e agli effettismi, ma anche agli eccessi concettuali. La tua è una cucina delicata che non cerca di sopraffare il commensale.
Penso che certe creazioni azzeccate non necessitino di ornamenti eccessivi. Dietro l’essenzialità si nasconde una magia inaspettata, e la semplicità mi permette di concentrare l’attenzione su quello che considero davvero importante. Cerco sempre di suscitare un sentimento di sorpresa, mettendo in luce sfumature inaspettate, analogie imprevedibili, piccole discrasie del gusto che aiutino ad evadere dal trantran dell’alimentazione e dai cliché che incrostano i cibi quotidiani. Un pomodoro, una patata, uno spicchio di cipolla.
Lavori all’interno di un museo, ma la storia della cucina si può leggere come un playback delle arti “maggiori”. Dopo le sbornie concettuali, la tua attenzione per le materie prime umili e quotidiane ricorda certi aspetti dell’arte povera.
È vero che presto molta attenzione alle materie prime quotidiane e che cerco di trovare la loro essenza. Altrettanto vero è che il percorso per arrivare a questo risultato ha una certa complessità, tanto nel processo creativo che nella ricerca e nella successiva esecuzione. Quindi mi piace pensare che la cucina di Nerua sia un complemento di quello che si può ammirare nelle sale del museo di arte contemporanea. Non per imitazione o riproduzione, ma attraverso lo specifico culinario e basta. In generale continuo a privilegiare i vegetali perché rappresentano un mondo poco conosciuto e poco studiato, che favorisce la creatività. Mi dà la sensazione di poter apportare molto e rende la mia cucina sorprendente e salutare. Inoltre contribuisce a creare opportunità per la gente che lavora nell’agricoltura e che forma parte dell’ambiente che vogliamo sostenere, quindi il cerchio si chiude. Innovazione e responsabilità: la ricetta di Nerua.
Su cosa stai ricercando attualmente?
Ogni anno io e la mia squadra ci prendiamo una pausa per discutere di quello che abbiamo imparato e dei progetti che abbiamo messo in moto. Questo mi permette di compiere una riflessione approfondita sul mio lavoro e di non perderne la coerenza. Poi ci poniamo obiettivi che definiranno le linee dei lavori futuri, cosa che ci offre la possibilità di apprendere, divertirci e proporre carte originali.
Ci sono molti progetti in corso, alcuni su cui sto lavorando da tempo, altri nuovi.
Negli ultimi mesi, per esempio, sto facendo ricerche sulle alghe e sto pensando in modo nuovo al caffè.