Millenovecentottantasette. Sono ormai 24 primavere che i fratelli Nicola e Pier Luigi Portinari lavorano alla ricetta originale della cucina italiana. Estrosa, colorata, up-to-date. Anagraficamente giovane e soprattutto generosa, quando non è addirittura “tanta”. Gusto, prodotto, istinto di razza. Li si definirebbe quasi dei solisti se solo non giocassero in doppio, rimpallando lo zucchero e il sale, il rigore con l’immaginazione. Tanto che la loro Peca può essere decifrata così: come un tassello della rivoluzione italiana. E se gli autodidatti sono da vent’anni la spina dorsale della nostra identità, renitente alle accademie e alle brigate straniere, capace di regger la baracca mentre salva il midollo del sentimento popolare, senza la vertebra di Lonigo quella struttura avrebbe ceduto almeno un po’, con gli inevitabili vacillamenti del caso.
Siamo nel mezzo dei Colli Berici, a qualche chilometro dal distretto della pelle di Arzignano. I filari di garganega spezzano il ritmo dei capannoni del nord est. La religione del lavoro fiancheggia il genius loci; la tecnologia il sentimento. E anche il ristorante un tempo era un casolare, che il duo ha ristrutturato costellandolo di arredi colorati e moderni, fra i quali rilucono perle di design contemporaneo o vintage. Le strategiche lampade a sospensione come l’Artichoke di Paul Henningsen.
Dietro le quinte c’è una cucina super equipaggiata, dove in silenzio il Rotovapor distilla la memoria dalle scorie dell’olografia e l’avanguardia dai cascami della moda. È quella che da queste parti chiamano “peca”, ovvero impronta, traccia – o forse sottotraccia, data la sottigliezza di talune soluzioni. Un ingrediente primario che nei cataloghi dei grandi selezionatori non può certo fare capolino.
I coperti, una trentina, disegnano uno slalom agevole per la direttrice di sala Cinzia Boggian, moglie di Pier Luigi ed autrice di centrotavola che strappano un sorriso dagli oggetti gastronomici più quotidiani. La scintilla del gioco scocca per via di calembour da tappi, scatolette di acciughe e geometrie di spaghetti crudi, mettendo subito in chiaro che il cloroformio del lusso non ha anestetizzato queste tavole. Perché la Peca ha tutti i segni di un’orma appena impressa, fresca fresca. Che si tratti di crudités, sgargianza di colori, acidità ficcanti o delle intuizioni nude e crude di chi è estraneo all’accademia.
Partenza da autodidatti
Come sempre, tuttavia, la didattica degli autodidatti è saldissima. Ferrea come i coltellacci di papà Serafino, un macellaio d’altri tempi che si dilettava di rosticceria. La sua bottega era un tripudio di polli in umido, conigli arrosto, lasagne e maialate, in cui infilavano le mani fin dalla più tenera età i due fratellini. Una peca impressa a fondo nell’argilla del talento, con il contributo decisivo di nonno Gioba, cioè Giovanni Battista, carismatico patriarca che officiava da un remoto capotavola la religione della gola.
L’avventura del ristorante, iniziata di slancio e per passione, nel frattempo ha mietuto due stelle Michelin. E dagli esordi con un cuoco abruzzese discepolo di Cipriani alle sofisticate alchimie del menu 2012 la cucina non ha dormito sonni tranquilli. “Siamo partiti da un’impostazione regionale tradizionale, ben distante dall’offerta delle trattorie. Ma non eravamo soddisfatti”, racconta Pier Luigi. “Nicola aveva messo il naso da Ducasse e ci siamo detti che dovevamo cambiare. Con un pizzico di incoscienza forse, visto che ci siamo formati a modo nostro, più leggendo e girando che nelle sedi canoniche. Così abbiamo iniziato ad alleggerire i piatti, fino a togliere il burro per arrivare alla selezione di extravergini che curiamo oggi. Abbiamo preso in mano la cucina, all’inizio con l’aiuto di Cinzia, e ci siamo dedicati prima di tutto alla rivisitazione in chiave marchesiana dei classici del Veneto. È seguito un po’ di sbandamento, con il tentativo di trapiantare ispirazioni francesi qua da noi, e poi la fase spagnola, che in un certo senso perdura tuttora, perché le tecniche ci interessano molto. Nel mezzo anche una parentesi terragna, qualcuno ha detto neorurale, per tirare fuori le nostre origini e la nostra diversità, nella massima attenzione per il lascito della cultura contadina e di quella conventuale”. Il risultato è del tutto personale: contemporaneo, certo, ma capace di rimescolamenti a sorpresa. La rivoluzione spagnola con altri tempi e altre temperie, sotto un vessillo orgogliosamente italiano.
Un DNA veneto
Il Veneto è presente innanzitutto nel prodotto. Il broccolo fiolaro, i carcofini castraure della laguna, le patate di Rotzo, il mais marano. E ancora il grugnito famigliare dei maiali di papà Serafino: due suini l’anno devoluti al ristorante, protagonisti del piatto di salumi con giardiniera e panbiscotto (22 euro). Mettiamoci pure gli animali da cortile, i germani da novembre a metà dicembre e le oche ben frollate di una signora della zona; nonché la carne di sorana, ma solo col bel tempo quando gli animali escono a brucare al pascolo. Il paniere degli ingredienti territoriali (ma senza forzature) si fa ancora più autoctono nella consuetudine con le spezie e nel ventaglio delle cotture, in bilico tra tradizione e professionismo haut-de-gamme.
Dal confit, che qui si chiama “pignato”, al “cassopippa”, bassa temperatura ante litteram che si otteneva spingendo la casseruola del baccalà sull’angolo più remoto della stufa. Che si tratti di recuperi o di zampate avanguardiste, ciò che conta è lavorare l’ingrediente in purezza, alla ricerca della massima espressione e di una concentrazione che non indulga a stanchezza. Ne risulta una gastronomia laica dove le cotture sottovuoto delle carni, con i loro atout testurali, possono essere ravvivate dalla fragranza della finitura in padella. I sughi e i brodi di alta scuola, abbreviati nei tempi di cottura e finiti nel succitato Rotovapor che, sottovuoto sui 40°C, estrae l’acqua senza pregiudizi per il corredo aromatico. È il caso del sugo di pomodori del piennolo, appena scottati e concentrati, come del fondo di carne servito con cavolfiore, lingua e polenta (28 euro): accorgimenti tecnici invisibili che iniettano gioventù nella tradizione.
I più ortodossi sceglieranno in carta i piatti contrassegnati dall’impronta. Signature dishes spesso di forte impronta veneta quali i bigoli integrali con le acciughe, le alici marinate e il gelato di cipolla rossa (27 euro) o i soffici di zucca con essenza di brasato, nocciole alla cannella e tannini estratti sempre al Rotovapor (28 euro). Dove la cultura duetta con l’irriverenza, la riflessione con lo sfizio. Ma sono imperdibili soprattutto i twist più moderni. Gli scampi con collosità di maialino, ovvero trippa, crema di castraure, con i tannini che scartavetrano, e capsula di mandarino al tè affumicato, ideale per sgrassare (35 euro); così come l’Acquario dell’Adriatico (30 euro), un barattolo contenente raviolini di gamberi, calamari, triglia e astice lavorati in tartare a crudo, dove la pasta diventa un espediente per separare i gusti e preservare gli ingredienti. Viene servito con le alghe, per la testura e l’afflato marino, e passato in forno qualche secondo al fine di potenziare l’effetto cloche. Un’irruzione di semplicità rivoluzionaria fra i funambolismi del menu. Oppure l’Orto (colori, armonia e complessità delle verdure d’autunno, 30 euro), che nasconde tecniche iperuraniche dietro le sembianze degli ortaggi più umili: un letto di sedano rapa crudo per la sapidità e la nota lattica, l’acidità amarotica della rapa che una volta si dava solo ai maiali, centrifugata e distillata, l’aria alla lecitina di cavolo rosso fermentato, la zucca cremosa o croccante, essiccata o abbottonata nella sua gelatina, più un filo dorato di extravergine novello. Vero protagonista del piatto. I percorsi guidati sono due: “Dal mare” (6 portate a 120 euro) e la miscellanea dei classici (ancora 6 portate, a 110 euro). Enciclopedica la cantina, forte di oltre duemila referenze e maturata nel tempo insieme alle sue etichette migliori. Per via di affinità elettiva la predilezione della casa va ai vini naturali, soprattutto quelli locali, firmati Angiolino Maule, Daniele Piccinin, Davide Spillare o Daniele Portinari, cugino degli chef. Archeologi del futuro che imprimono la peca del territorio a fondo nel bicchiere, con l’energia e la libertà di chi è (ancora una volta) autodidatta.