Ristorante virtuoso ed eccellente nel Levante ligure
Una striscia di bellezza stretta fra l’impennata scoscesa del verde e la linea turchese del mare. Nel mezzo, come una catasta armoniosa di colori, le case dipinte a trompe-l’oeil, astuto espediente per evitare l’ossidazione dei materiali da decoro dovuta alla salsedine, che instaura le atmosfere stranianti di una messa in scena. Poco sotto le lingue di spiaggia sassosa, cucite alla terraferma dalla trama fitta dei profumi. La macchia che si inerpica per i pendii, le chiazze sgargianti dei fiori spontanei, la sferzata iodata delle onde. È la Liguria di Levante: terra di una natura avara e generosa, dove la meraviglia germoglia a sorpresa dalle crepe siccitose delle terrazze. Ed è un’ebrezza che ti prende alla gola e ti stordisce in una girandola di sensazioni interscambiabili. Olfattive, visive, sonore, gustative – perché no? Anche il gusto, o forse soprattutto lui, gioca la sua parte.
Ma bisogna sentirla questa terra, per portarla sul piatto. Sentirla come Serenella Medone, che a Bogliasco fa la cuoca (e non “la chef”, appellativo che giudica gerarchico e asessuato) con una solarità cordiale che ingentilisce la ruvidezza dei suoi compaesani. Il suo è un vero nomen omen, giacché Serenella conversa e cucina con la suadenza del vezzeggiativo e la dolcezza di chi è in pace con se stesso. Certo fa specie sentirle raccontare la sua storia. Che stanca del suo lavoro di impiegata di una società di ingegneria impiantistica, nel 1995 con il marito Alessandro Palazzesi, marchigiano di nascita e odontotecnico di professione, ha coraggiosamente rilevato il pub di Bogliasco, in realtà uno dei primi ristoranti del paese, attivo già dagli anni ’20. Sono seguiti anni e anni di bruschette e panini, ma anche dolci al piatto, i primi del paese, giacché la pasticceria è stata il primo amore di Serenella, coltivato oggi qua e là con la complicità dell’amica Loretta Fanella.
Finché 4 anni fa Niko Romito non ha vestito il peplo del deus ex machina: i suoi piatti e soprattutto la sua sfida vincente di autodidatta totale hanno risvegliato l’ambizione sopita, ma incessantemente alimentata dal fervore delle letture e dalla consuetudine con i congressi del settore – giacché la curiosità è donna.
La cucina intesa come spazio fisico, situato al piano interrato, è stata completamente ristrutturata. E quella cucinata non è stata meno rivoluzionata, grazie ai corsi all’Alma e all’Étoile. Oggi “Al solito posto” è uno dei migliori ristoranti di Levante, lo spicchio meno blasonato della gastronomia regionale (a detta di Serenella un autentico “bronx”) nonostante le sirene seducenti delle sue sensazioni.
Perché fra gli squilli delle zucchine trombetta e le zampate dei gamberi rossi della fossa prospiciente il paese, la stessa che passa per Santa Margherita, nel brulicare del paniere in festa, l’unica cosa che faccia fatica ad attecchire sembra proprio la ristorazione di qualità. Su una scena sfigurata dai grossi numeri degli sfamifici per turisti, Serenella ha deciso di mantenere al suo locale un profilo defilato. Sono 24 coperti dopo la saletta che conserva gli arredi del pub, tuttora adibita ad american bar.
In cucina si affaccendano in tandem Serenella e Michela, un’intesa cementata dalla complicità, che in sala si giova dell’ambasciata di Alessandro più qualche extra eventuale. E anche i prezzi sono decisamente friendly: appena 43 e 53 euro per i 2 menu degustazione (“Quattro passi in Liguria” e “La mia cucina”), 4 portate generose per quantità, gusto e profumo. Per accompagnarli c’è una cantina di 100 referenze liguri e non solo, metà delle quali biologiche, naturali o biodinamiche; oltre alla birroteca internazionale e alla carta enciclopedica dei cocktail (prezzo fisso 7 euro).
La cucina di Serenella parte dalle materie prime del territorio. Sembrerebbe banale dirlo, ma in questo caso è vero. Il pesce è quello della cooperativa di Bagnara, più qualche barca di Bogliasco che integra la carta. Cosicché bonacce e mareggiate fanno il bello e il cattivo tempo in cucina, con gli adeguamenti repentini del caso. Esemplare il capitolo pane che, oltre alla focaccia fatta in cas,a vanta filoncini preparati con un lievito madre nato dalle cure di Alessandro 6 anni fa. L’olio, rigorosamente da olive taggiasche, è quello dei contadini di Bogliasco o di Pieve, come buona parte delle verdure; mentre le erbe aromatiche le coglie la cuoca di persona durante le sue passeggiate. E d’inverno c’è anche una nutrita offerta di terra, che comunque non manca mai in carta. Materie prime che Serenella tratta con la gentilezza del suo vezzeggiativo, accarezzandole con le basse temperature e il vapore. Per poi innescare giochi gustativi vigorosi e talvolta arditi attraverso gli accostamenti e i condimenti. Non senza un pizzico saltuario di Texturas, ma solo quando serve. La Xanthana al Solito posto è canonizzata Sant’Anna: un pizzico provvidenziale quando la salsa non prende, né si vuole protrarre la cottura.
Sui piatti di mare aleggia il carisma di papà Dino, pescatore tanto esperto da aver tessuto le reti per le società oceanografiche. Specie sul ciuppin, la leggendaria zuppa ligure passata al setaccio che un tempo veniva preparata sulle barche con le minutaglie e pesciolini tanto saporiti quanto liscosi. Serenella la appronta sotto il suo controllo vigile, con la licenza poetica dell’omissione del robusto soffritto di aglio e prezzemolo, che marcherebbe eccessivamente il gusto. E ne fa un uso versatile, ad esempio quale guazzetto per pansoti di baccalà che conservano l’aggressività dell’odore di sale al mercato (15 euro).
I pesci che lo compongono sono trattati con l’abbattitore, perché la professionalità non si discute. Come quelli che compongono la gustosa trilogia del pesce azzurro a chilometri zero (tartare di palamita all’arancio, sugarello sott’olio fatto in casa, acciughe fritte, 15 euro), che strizza l’occhio all’avanguardia con la sua scatolina di latta socchiusa. Lo stoccafisso, altro classico ligure, inalbera la sua testura di carattere nel contrasto ingaggiato con l’acidità della panzanella e i profumi del pesto leggero, perché privo di formaggio (13 euro). Mentre le trenette avvantaggiate (cioè addizionate di crusca, secondo la tradizione povera del luogo, a mo’ di succedaneo utile anche per saziare più in fretta) e trafilate in casa con la colatura di Cetara, le fave e le acciughe fresche inscenano un confronto fra interpretazioni eccellenti dell’umile pesciolino argentato. Sfaccettature che ricompongono un ritratto a tutto tondo dove l’umore della fermentazione si ricongiunge alla concentrazione gustativa (14 euro). Fra i secondi e i dessert torna a far capolino il gioco avanguardista. Quello degli strepitosi gamberoni rossi di Santa Margherita al vapore, serviti tiepidi con granita di caipiriña per stimolare il palato con lo chaud-froid e l’acidità citrina del cocktail, cucendo lo strappo con l’american bar (25 euro). Un gioco gustativo cristallino nella sua spoliazione, come quello che accosta sul piatto il semifreddo di menta ricoperto di cioccolato a mo’ di stecco con il gelato di liquirizia Amarelli (9 euro). Aggressivo quanto basta nella sua limpida architettura. L’azzurro all’orizzonte si traduce nel guizzo argenteo del pescato; la pervasività dei profumi nelle volute verdi che si inerpicano dal piatto per le serpentine del naso, su su fino alle sinapsi, quasi a mimare un sentiero di montagna. Eccolo qui il paesaggio commestibile: dipinto con la fragranza delle materie prime del territorio, tavolozza vivida e fedele. Come già la brevità dei paesi, il pasto diventa un istante di veglia fra due sogni diversi: l’oscurità boscosa dell’entroterra e le profondità subitanee dei fondali. Pausa cesellata come un capolavoro di oreficeria, dato che l’amore di tutto quanto è minuto, obbligato da ragioni orografiche, fa di queste terre un piccolo Giappone d’Italia.
È per locali come questi (troppo poco numerosi, ahimè) che circola la linfa della ristorazione nazionale. Nervature capaci di far transitare i saperi e le suggestioni attraverso il centro e la periferia, l’alta cucina e la campagna. Tenendo vegeta l’identità della cucina nazionale, forti dell’appeal irresistibile dell’intimità col prodotto. Ed è una vitalità allegra e un po’ disperata, fatta di coraggio quotidiano, fantasia e tanta passione. Generosa, incontenibile, eroica come secoli di agricoltura strappata alla verticalità impietosa dei goniometri. Qui in Liguria lo si capisce appieno.